Quando si parla di “Antropocene” si allude a un concetto per la verità un po' sfuggevole. Coniato (quanto meno nella sua accezione corrente) dal biologo Eugene Stoemer negli anni Ottanta, e poi ripreso dal chimico e premio Nobel Paul Crutzen, il termine vanta, per etimologia e origini, credenziali prettamente scientifiche: si tratterebbe di una nuova età geologica, successiva all'Olocene, e contraddistinta dall'impatto della specie umana sul sistema Terra. Altri termini (più o meno riusciti) e altre teorizzazioni esistono per definire la stessa idea, ma i tre autori de Antropocene: L'epoca umana scelgono di rimanere vicini al coté geologico del discorso. Dal 2016 infatti un gruppo di scienziati legati alla Commissione Internazionale di Stratigrafia ha identificato una serie di fenomeni materiali sulla base dei quali si fonderebbe la validità geologica del nuovo crononimo. E proprio a queste diverse categorie di fenomeni (estrazione di materie prime, presenza di tecnofossili, eccetera) si appoggiano il fotografo Edward Burtynsky e i documentaristi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier per strutturare, a mo’ di rubriche, i macrosegmenti del loro film. Dico film, anche se in realtà la pellicola è parte di un progetto più ampio, che include una serie di fotografie a grande formato, due altri documentari (Manufactured Landscapes del 2006 e Watermark del 2013), una mostra (al MAST di Bologna fino ai primi di gennaio) e una serie di iniziative educative a sfondo ecologico.
Di questo ampio progetto multimediale il film mantiene l'impianto periscopico e planetario. All'interno di ogni macro-segmento, infatti, gli autori esplorano una dozzina di paesaggi, sia naturali sia industriali, emblematici delle varie realtà dell’Antropocene. Ora: esiste un lungo e consolidato legame tra l'immagine cinematografica e l'immagine della terra, sulla cui crisi ha recentemente scritto, per esempio, Giorgio Avezzù (L’evidenza del mondo. Cinema contemporaneo e angoscia geografica, Diabasis, Parma 2017). Con l'Antropocene, tuttavia, si pone un problema ulteriore (ulteriore, intendo, rispetto a quello della semplice rappresentabilità geografica). Nel mettere in relazione la dimensione umana e quella geologica, il concetto ci pone di fronte a un problema di incommensurabilità etica. Come si può misurare la responsabilità di aver causato, noi esseri umani, una nuova (e fin qui poco gloriosa) epoca geologica? Che questo sia l'orizzonte critico lo evidenzia bene la prima sequenza del film, girata in Kenya nel 2016, durante i roghi con cui il governo si disfò pubblicamente (e ritualmente) delle zanne d'avorio confiscate al bracconaggio. Un'attivista, sdegnata, nota come sia ben possibile quantificare il valore monetario di tutto quell'avorio, ma molto più difficile immaginare le decine di migliaia di elefanti abbattuti per procurarlo.
Immaginare, appunto: la difficoltà di misurare l'eccesso (etico) delle nostre responsabilità planetarie (estinzioni di massa incluse) si accompagna alla difficoltà di fare immagini, di raffigurare questo orizzonte extra-umano. Nella fattispecie, gli autori optano per una modalità fredda. Per ognuno dei paesaggi indagati, offrono inquadrature in campi lunghi e lunghissimi, che spesso si rifanno direttamente alle fotografie di Burtynsky. Queste vedute, spesso aeree, articolano una prospettiva insieme astratta e materica, solo raramente intervallata dalla presenza umana. Se si escludono alcuni inserti di colonna sonora e gli scarni commenti della voce narrante (nella versione italiana, Alba Rohrwacher) è soprattutto il montaggio a farsi carico di annodare i fili, lasciando intuire, oltre i confini della singola inquadratura, un sistema complesso di nessi, cause e conseguenze (stratigrafiche, economiche, materiali, etiche), col quale, ormai, dobbiamo tutti confrontarci.