A chi appartiene lo sguardo della soggettiva iniziale e quindi, in qualche modo, il nostro, di spettatori? Chi scruta tra le foglie di una fetta tanto lussureggiante della foresta thailandese? Un uomo con indosso piccole luminarie variopinte e armato di fucile, che emette richiami per attirare a sé gli esseri che la abitano, sembra rivelare la macchina da presa con i suoi movimenti suadenti, fra i misteriosi suoni e le ombre della fitta vegetazione. Eppure la foresta non è percorsa solo dal curioso soldato: da subito pare avere occhi e respiro nascosti, forse per sempre. Manta Ray, opera prima con cui il thailandese Phuttiphong Aroonpheng, già direttore della fotografia, ha vinto la sezione Orizzonti alla settantacinquesima Mostra del Cinema di Venezia (2018), Film della Critica per SNCCI, comincia da quello che sarà il proprio leitmotiv, cioè la danza della macchina da presa – simile a quella elegante di una manta nell’acqua – immersa nel verde, buio, liquido amniotico della foresta, acceso di mille piccolissime luci dagli altrettanti colori: ognuna una donna, ciascuna un uomo, una per una un bambino.
Tante quante le voci soffocate dei Rohingya - la minoranza etnico-religiosa musulmana del Myanmar che da anni, vittima di persecuzioni e crimini, è costretta all’esodo in massa verso la Thailandia – a cui in apertura è dedicato il film, patrocinato da Amnesty International Italia. Molti loro corpi, annegati, continuano a essere rinvenuti sulle spiagge thailandesi o sono stati trovati – qualche anno fa – sulla collina tra Thailandia meridionale e Malesia, dove è stata scoperta una fossa comune. «La causa di quelle morti rimane un mistero; i cadaveri non possono parlare e gli eventi sono stati lentamente dimenticati», afferma il regista, che fa abitare una sequenza del film da «molte voci nella foresta, piene di angoscia e lacrime». Voci di rifugiati Rohingya che aveva registrato e che «non scompariranno e non saranno totalmente dimenticate: continueranno a esistere, nel film». Nasce anche da una visione del regista («Osservo attentamente la mia foresta. A un tratto, un uomo squilibrato accende luci al neon in tutta la foresta: brutte luci in verde, giallo, blu e rosso. L'uomo squilibrato proclama che ogni pezzo di terra su cui le sue luci si poggiano appartiene “a noi”»), da un suo sogno, la vicenda del pescatore dai capelli ossigenati, di cui viene taciuto il nome, il quale, trovato un uomo gravemente ferito nella foresta, lo cura e lo ospita, gli parla accettandone il mutismo, lo “battezza” assegnando a lui, privo di voce e di identità, il nome di Thongchai, quello, per paradosso, di una notissima pop star thailandese.
La storia dei due uomini si fa poi racconto di accoglienza/rifiuto di un emigrato (che potrebbe appartenere o meno all’etnia Rohingya, di cui forse sono membri pure gli uomini che il pescatore è obbligato dal suo “padrone” a seppellire), per diventare infine parabola sull’identità, urlo muto affidato alla videoarte, e tornare, quindi, nella dimensione dell’irreale, dell’inconscio, dell’onirico, È così il piacere dell’immersione psichedelica e magica, eppure sempre crudele come la foresta, a redimere un’opera faticosa da fruire nei suoi silenzi e nelle appena suggerite interpretazioni. Ipnotizzati e persi nell’intreccio di rami e rimandi silenziosi alla cultura animista del popolo Thai («La gente dice che col cielo terso e la Luna piena, le pietre scintillano alla luce e splendono in tutta la foresta. Ma nessuno osa entrarci durante la notte. È così spaventoso… Anch’io ho paura. Guarda, ho la pelle d’oca», racconta il pescatore), restiamo intrappolati anche dal gioco di specchi che il regista costruisce poeticamente su più livelli: narrativo, linguistico, scenografico, sonoro.
Sono soprattutto i raccordi di suono o i rimandi giocati su volumi simili (i pesci spostati con gli stivali o ripuliti delle viscere e l’intrico di rami, spioventi sul fiume, che nascondono cadaveri) a intrecciare la scena-fil rouge del “soldato illuminato” con quelle dedicate alle vite dei due uomini, il pescatore e il ferito trovato in fin di vita come un pesce arenato sulla riva di un fiume e poi salvato, i quali si specchiano l’uno nell’altro fin da subito. Numerose sono infatti le sequenze che li vedono insieme, uno accanto o di fronte all’altro, a costruire simmetrie perfette: insieme sul sidecar; mentre uno regge l’altro che si trascina ferito con una flebo al braccio; quando uno si ciba o sta muto in ascolto della voce dell’altro che parla o semplicemente fuma; insieme a scrutare nella stessa direzione l’orizzonte; di fronte, il pescatore – tornato minato nel fisico e coi capelli rasati da chissà quale dolorosa e incomprensibile scomparsa – e Thongchai, con la capigliatura che la moglie del pescatore, ricomparsa dal nulla, vuole per lo straniero, quasi a ricomporre l’armonia che lei stessa aveva contribuito a spezzare andandosene.
Tre, in particolare, le sequenze giocate sui campi/controcampi frontali tra i volti dei due personaggi, quasi delle soggettive, che scandiscono le tappe essenziali del loro rapporto, in una presa di consapevolezza dell’altro che è al contempo preludio alla cancellazione della propria identità. Al risveglio, una prima volta, da una notte passata a bere, quando è il pescatore a trovarsi sdraiato nel posto riparato dalla tenda che aveva ceduto all’ospite. Ora è lo sconosciuto, invece, a essere seduto accanto a lui, oltre la tenda, come altre notti aveva fatto il pescatore, e a gettare il primo sguardo su di lui, a cui segue il controcampo di Thongchai attraverso la tenda. Poi, insieme, uno di fronte all’altro, all’esterno della tenda che li aveva fino ad ora divisi fra loro o allo sguardo dello spettatore.
Una seconda volta quando ballano fra i fili di luci colorate con cui il pescatore ha addobbato la sua baracca di legno: un primo piano dopo l’altro, insieme, fuori dal tempo e dallo spazio. Nello stretto abitacolo di una giostra al luna park, infine, fra altre luci colorate – che riproducono quelle sul corpo del soldato nella foresta e quelle accese a casa sulla danza ipnotica del pescatore, emulato da Thongchai – quando si specchiano, entrambi con uno sguardo fermissimo, l’uno nell’altro e, alle parole del pescatore «Se hai paura, chiudi gli occhi», entrambi li chiudono. Simili, uguali, lo sconosciuto muto e il pescatore senza nome che, solo quando sarà scomparso, potrà forse averne uno, quello stesso di Thongchai che, dolorosamente rassegnatosi alla scomparsa dell’amico, ne abita la casa, ne riproduce i gesti, lo “mantiene in vita” come era stato fatto con lui.
Prima della “sostituzione”, i due avevano vissuto momenti infinitesimali, di quelli che rendono tale una famiglia, che fanno specchiare l’uomo in un altro uomo e quindi in sé: trovare, all’uscita dal lavoro, l’amico venuto a prenderti con il motorino; comprare qualcosa per cena, la sera - figura isolata, quella del pescatore biondo, pur nel marasma del porto e del mercato - prima di tornare a casa; entrarvi, accendere la luce e sapere dove posare lo sguardo: lì dove c’è di nuovo qualcuno, come una volta c’era stata la moglie amata; aiutare a mangiare il ferito nella discrezione creata dall’ombra sulla tenda, dietro la quale Thongchai rigetta ciò che ha appena ingerito; accarezzargli la schiena perché ha vomitato, come si fa con un figlio. Mettere insieme i pezzi di un uomo anche cambiandogli le bende della medicazione per tenergli dentro le viscere, al contrario di quanto il pescatore aveva sempre fatto con i pesci, che eviscerava con meccanica frettolosità. Eppure, solo nell’acqua del fiume sembra esserci posto per alcuni uomini, la cui vita è un’altra piccola luce rossa che si accende nel buio doloroso della foresta: quella della ferita pulsante che si riapre nel torace di Thongchai, il quale torna al fiume, ridiventa fiume. Dove nessun pescatore, che ama scavare ed estrarre pietre colorate e preziose da gettare nel mare per attirare le mante, lo cercherà più.