Intendiamoci: non è Human Flow né un documentario della ZaLab (penso per esempio a Les Sauteurs) né, per assonanza tematica, L’ordine delle cose; ma il documentario di Piero Cannizzaro Storie d’Africa è un film importante, anzi direi necessario, per quello che racconta, le storie di dieci persone (senegalesi, guineane e ivoriane) “che non ce l’hanno fatta”, nel senso che hanno provato a venire in Europa, chi per lavorare e chi per studiare, tutte per superare una condizione di difficoltà o miseria, ma sono state mandate indietro dopo aver sofferto il soffribile: violenze, torture, stupri, marce sotto il sole del deserto e giorni e giorni in mare, senza cibo né acqua. E soldi, soldi, soldi dati a gente senza scrupoli, che li ha venduti e “ceduti” come fossero merci. Ed è ancora interessante come Cannizzaro le ha volute guardare, queste persone per cui il Mediterraneo “sta in alto”, con un evidente rovesciamento del punto di vista: da vicino, in primi piani distesi, con l’umanità e il rispetto che meritano in quanto persone e non in quanto massa indistinta di gente che si imbarca, come siamo abituati a vederle nei notiziari. Anche se spesso non le vogliamo proprio vedere.
I numeri sono impressionanti, e parlano da soli: lo scorso anno sono morte nel Mediterraneo millequarantuno persone, e, tra coloro che cercano di arrivare in Europa dalla Libia, più della metà è rimandata indietro e rinchiusa nelle carceri tristemente famose, i centri di detenzione gestiti dal governo, in cui si trovano attualmente quattromilacinquecento persone, di cui duemilacinquecento rifugiati e richiedenti asilo. In questo quadro ha preso vita il progetto CinemArena, finanziato dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione allo Sviluppo con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, un programma che sensibilizza le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo attraverso campagne di formazione su temi sanitari, sociali ed educativi, per arginare il rischio dell’emigrazione irregolare e per informare sulle opportunità di lavoro e sviluppo del territorio. Cannizzaro ha seguito CinemArena in cinque Paesi africani, quelli da cui maggiormente provengono i migranti che tentano la traversata del Mediterraneo (Senegal, Costa d’Avorio e Guinea, presenti nel film, più Gambia e Nigeria), visitando centotrentacinque villaggi e riprendendo la tradizione africana del ritrovo nella piazza per sentire dei racconti o ascoltare musica, in questo caso con lo schermo, le sedie disposte a semicerchio, gli altoparlanti e artisti del calibro di Alioune Ndiaye; e ascoltando, come si diceva, dieci persone per dieci storie.
Abbiamo così l’allevatore che è partito perché “non aveva nulla” e che dice che se anche in Europa c’è la crisi, non potrà mai essere pari a quella africana; l’uomo che racconta che nel deserto ci si toglieva addirittura le camicie perché anche quelle “pesavano” e che, partito con moglie e figlio, ha dovuto vedere la donna violentata davanti ai suoi occhi mentre erano prigionieri in Libia; il ragazzo che, diretto in Spagna e rimandato indietro all’arrivo, è stato diciassette giorni in mare, senza cibo né acqua, in una barca da novanta persone che ne conteneva duecento, da cui sono sbarcati in cento dopo pene inenarrabili per essere imprigionati per un altro mese, prima di poter tornare in Patria; oppure la ragazza che a diciott’anni, per studiare in Europa, è scappata con due amiche vendendo tutto ciò che possedeva per poter pagare il viaggio ed è finita in una casa di prostituzione in Algeria, dove era “visitata” da sei uomini a notte e in cui è rimasta anche incinta. O la storia a lieto fine dell’uomo che, dopo ventitré anni di lavoro in Italia, è riuscito a mettere in piedi un panificio e a far studiare i figli, nati nel nostro Paese. Lui è tornato perché a un certo punto si sentiva straniero ovunque, sia in Senegal che in Italia; e spiega che in Africa la situazione è davvero difficile, per cui anche chi conosce i rischi dell’aventure, com’è chiamato il viaggio verso l’Europa, si mette in marcia sperando, in qualche modo, di arrivare. In questo senso la testimonianza forse più significativa è quella del giovane panificatore di un villaggio senegalese: «Sento dire spesso che il percorso è pericoloso e che le persone vengono maltrattate. […] Può essere che un giorno partirò, perché vedo che altri sono partiti e ci sono riusciti. Quando le cose stanno così, è legittimo decidere di partire; è una possibilità».