Quando Lidija Zelović è bambina, Sarajevo è poco meno di un paradiso. La sensazione è che il presente e il futuro siano delle riserve di gioia, di condivisione di valori e di razze, di pienezza vitale. Poi, nel 1980, muore il Presidente Tito, e a poco a poco l’aria dei tempi si fa più pesante, malsana, irrespirabile. Lidija Zelović, che di Home Game è regista ma è anche narratrice, in voce over, confessa che per lei è difficile fare i conti con il cambiamento: preferisce confidare ancora nella felicità, complice l’età adolescenziale. Ma la guerra d’indipendenza croata arriva presto, costringendo tutti, tra cui Lidija, che nel frattempo diventa testimone della tragedia nei panni di giornalista, il fratello e i genitori, a drastiche scelte determinate dal cognome. Non rimane che l’espatrio. Che in verità è una fuga. Lidija trova casa nei Pasi Bassi, dove tutto appare (in) ordine, corretto, mite. Un bel salto di qualità, rispetto alla terra devastata che lascia alle spalle. Tuttavia, è noto, la guerra, la disarmonia e la follia sono connaturate alla Storia, quindi ben presto Lidija percepisce che l’Olanda non è quell’oasi di pace che sembra: decide di studiare cinema e di diventare filmmaker per meglio intercettare il processo inarrestabile del presente, che mentre si trasforma in domani muta pelle e svela innumerevoli tensioni, polarizzazioni, inquietudini che spesso sfociano in gesti estremi (come, per esempio, l’omicidio del regista Theo van Gogh, avvenuto ad Amsterdam nel 2004 per mano di un estremista islamico). È bello, Home Game. È giusto. Perché usa il family movie e l’archivio non semplicemente come documentazione storica ma come traccia per tentare di definire un’identità perennemente scissa e mai soddisfatta. E dunque pubblico e privato si intrecciano, come è naturale che sia. Senza soluzione (di continuità).