Guidala tu, la mia auto. È una Saab Turbo, rossa. È lì che sono abituato a esercitare la mia memoria, dei copioni teatrali da imparare e da recitare, del mio privato, di mia moglie. In quest'auto ci sono io. Non è una semplice protezione dal mondo, o un banale involucro, o una mia protesi: è in verità il mio sguardo, e proprio per questo motivo sul sedile del “guidatore” non deve esserci nessun altro. Tuttavia faccio un'eccezione. Prendimi, accompagnami, portami a destinazione. Come a dire: nel mio sguardo entri anche tu. E allora capisco che nei miei viaggi in solitudine, nelle lunghe soste dalla realtà passate al volante, ho sempre dato troppo per scontato. Ho dato per scontati i tradimenti di mia moglie, il suo comunque indiscusso ed eterno amore per me, la mia devozione nei suoi confronti, il rimpianto per la sua morte, i dubbi e le ipotesi, i se e i forse, e anche il mio lavoro. Adesso però ci sei tu, una ragazza di ventitré anni, e mia figlia, se fosse ancora viva, avrebbe la tua età. Quando mi chiedono com'è la tua guida, nonostante le mie perplessità iniziali, non posso che rispondere: favolosa. Perché tu hai imparato da giovanissima, avanti e indietro con tua madre, che, stanca e esasperata, ti calciava da dietro sul sedile se prendevi un dosso troppo bruscamente. Guidare, l'ho inteso, per te è stato anche elaborare un lutto, una colpa inconfessata, un'infanzia molto difficile. Siamo sulla stessa auto, tu e io, ed è in questi percorsi che capisco, e so bene che capisci anche tu, che nonostante tutto dobbiamo vivere. Al di là del dolore. E oltre qualunque finzione, anche la più adeguata a questo nostro presente, come per esempio quella del testo di Zio Vanja. Poco importa dunque che l'arte rappresenti la realtà, non è una grande novità: ciò che mi preme, dopo averti concesso la guida della mia Saab, è avere compreso a fondo quanto l'idea di comunità e di complicità, perfino con lingue incompatibili l'una con l'altra (ma è un'incompatibilità tutta di superficie), sia fondamentale anche per dare risposte a questa nostra identità così disastrata. Non c'è riposo e non ci sono riscontri nell'isolamento. Se fossi tuo padre, ti abbraccerei per dirti che non c'è niente di cui devi vergognarti del tuo passato. Se fossi mia figlia, ti direi grazie.
Tratto da un racconto di Murakami Haruki contenuto nella raccolta Uomini senza donne, Drive My Car non è un film teatrale, e non è un film sul teatro. È un'opera invece di eterni rimandi, dove i chiarimenti sono lasciati in forma di ricerca ininterrotta, e dove il completamento dell'io più irrisolto, del sé più fragile, appartiene alla meravigliosa scoperta di un altro io altrettanto insoluto. Qualcosa di più di un'amicizia: quella tra l'autore teatrale Kafuku Yusuke (Nishijima Hidetoshi) e la sua giovane autista Watari Misaki (Miura Toko) è appunto una reciproca remissione, lui vedovo, lei nel ricordo ingombrante della morte della madre dalla doppia personalità. Čechov e i tragitti sulla Saab rossa vanno in scena a Hiroshima, e chiaramente la geografia – intesa anche quale geografia dello spirito – è significativa: tuttavia Hamaguchi Ryusuke è terso, il passato ha un volto e un nome, il futuro ne deve avere altri. E in una conclusione quasi eastwoodiana aggiornata ai nostri tempi pandemici, questo capolavoro trova nello spazio fuori e dentro l'auto, grande e piccolo, insonorizzato e aperto, la ragione più importante per guardare al domani, e anche alle immagini del domani: trova finalmente la sensibilità della requie, ed è finanche assordante, tanto è serena.