Il cinema da regista di Sean Penn è nel migliore dei casi il volenteroso tentativo di un attore che vero regista non sarà mai (con l’eccezione forse di La promessa e Into the Wild, eccessivi e fuori controllo sotto ogni punto di vista, ma indubbiamente seducenti come a volte il cinema americano sa essere), e nel peggiore un goffo campionario di soluzioni visive grevi, concentrato di luoghi comuni ed elementi che si vorrebbero densi di significato. Il tuo ultimo sguardo, il penultimo film da regista di Penn, presentato proprio a Cannes nel 2015, fu un fallimento epocale, e per quanto innegabilmente migliore, anche questo nuovo Flag Day non sposta di molte le cose: si resta nell’universo greve di un regista volenteroso ma bloccato in un’idea fasulla, o perlomeno vecchia, di cinema americano.
Il film è tratto dalle memorie della giornalista americana Jennifer Vogel, Flim-Flam Man: The True Story of My Father’s Counterfeit Life (scritto nel 2005) e racconta la relazione fra il rapinatore di banche e falsario John (interpretato dallo stesso Penn) e sua figlia Jennifer (interpreta da sua figlia Dylan, così come l’altro figlio di John, Nick, è interpretato da Hopper Penn), fra la metà degli anni Settanta e i primi anni Novanta. Innamorata del padre e testardamente convinta di poterlo redimere, a 16 anni Jennifer abbandona la nuova famiglia della madre – dove è vittima delle attenzioni sessuali del patrigno – per unirsi a John. Nonostante la buona volontà di entrambi, l’affetto reciproco cede al richiamo del crimine per lui e della fuga per lei. John assalta una banca e finisce in galera, Jennifer lontano dal padre s'iscrive all'Università del Minnessota, ma per qualche strano motivo spiegabile solo con la retorica americana dell’individualismo più becero, la condotta libertaria di John – la cui ultima e fatale fuga viene raccontata in diretta televisiva sotto la sguardo terrorizzato di Jennifer – finisce per diventare una lezione di libertà per la figlia.
La morale gratuita del racconto, che nonostante l’ampio arco narrativo s’impastoia in sequenze ripetute e inermi tra primi piani insistiti, ralenti, controluce, passaggi musicali infiniti (però di gran classe: Chopin, Cat Power, Bob Seeger, Eddie Vedder che rifà Drive dei Rem), è in realtà il riflesso di uno stile goffamente autoriale e fuori tempo massimo, quasi anacronistico nel suo immaginario anni Settanta rimasticato da un’estetica stilizzata e artificiosa.
L’idea di cinema di Sean Penn è vecchia come il suo stile di recitazione, bloccato in un’espressione di dannazione e sfacelo fisico e morale. Talvolta nelle quasi due ore di Flag Day il grande attore s’intravede dietro la maschera usurata dal tempo; il regista, invece, quello non s’affaccia mai.