Come Grâce à Dieu di Ozon, anche Mr. Jones si apre con una corrispondenza. Se però da una parte ci troviamo di fronte all’eleganza di una regia pulita e lineare, dall'altra, nel film di Agnieszka Holland, la sensazione è quella di venire travolti da una marea di eccessi stilistici.
Mr. Jones è la storia vera di un giornalista che insegue la verità a ogni costo. Con il sogno nel cassetto di vincere un giorno il Pulitzer, Gareth Jones (interpretato da James Norton), consulente politico nell’Inghilterra degli anni ’30 e conosciuto per aver intervistato Hitler, decide infatti di intraprendere un viaggio in URSS e poi in Ucraina, nella speranza di rivelare il vero volto del regime sovietico e di metterne in luce le più taciute brutalità.
Immerso nella neve, affamato, vessato dal potere e spesso deriso da un popolo scaltro per necessità, il giornalista gallese, raffigurato come un eroe solitaario, privo di vizi e impossibile da traviare, sfida così, uno dopo l'altro, una lunga serie di personaggi stereotipati (il giornalista esperto che non gli crede e lo inganna, i commissari del regime che lo intimidiscono, una collega americana che si innamora di lui…). In un viaggio ai limiti della disumanità, e del buonismo, dentro il cosiddetto holodomor – il nome in lingua ucraina attribuito alla carestia che si abbatté sul territorio dell'Ucraina tra il 1932 e il 1933 – tra fame, morte, dolore e cannibalismo, il Mr. Jones del titolo non sembra mai raggiungere una vera tridimensionalità: scatta fotografie senza porsi un quesito etico sul suo ruolo nel contesto (dove finisce il fotoreporter e dove comincia l'uomo?), vive in prima persona l'orrore senza mai incrinarsi o mostrare perdita di razionalità, diventa una sorta di automa della verità, quasi incapace di piangere o soffrire.
Del resto, la medesima carenza di spessore si rivela anche nelle scelte registiche e fotografiche che, sforzandosi eccessivamente di puntare in direzione di un cinema innovativo e diverso, finiscono per essere caotiche, eccessive quando non addirittura ridicole: la camera a mano che segue freneticamente il protagonista, la grana spessa che sporca l'immagine, l'arancia coloratissima che spicca al centro di un quadro desaturato fino quasi al bianco e nero... tutto si muove e tutto è troppo, in un continuo cambio di punto di vista e in un montaggio a tratti delirante, tra panoramiche vorticose e riprese di viaggio in treno in cui l'interno si fonde con l'esterno, il punto di osservazione ruota su se stesso, l'immagine si ribalta e diversi frame di repertorio da Il vecchio e il nuovo di Ėjzenštejn si insinuano tra le inquadrature. Una modalità che finisce per avvicinare il cinema al gioco trasformando il film in un compendio di inutili trovate estetiche.