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È evidente che sovrapporre alle immagini dei conflitti di oggi quelle della Beirut degli anni Ottanta, devastata dalla guerra civile e dalle bombe israeliane (così simili a quelle di Gaza di oggi), non può che creare un cortocircuito di immaginari. Ed è quello che ha voluto fare consapevolmente Cecilia Cenciarelli, curatrice della sezione Cinemalibero - una delle più interessanti e stimolanti delle ultime edizioni de Il Cinema Ritrovato - con la decisione di aprire questa sezione con lo splendido Ghazl el-Banat di Jocelyne Saab (cioè lo “zucchero filato”, ma il film ebbe molti titoli, tra cui L’Adolescente sucre d’amour in francese o The Razor’s Edge e A Suspended Life in inglese), un film che attraverso i fantasmi del passato sembra aiutarci a straniare le immagini di oggi. Saab che fece diversi documentari e film per la televisione durante gli anni della guerra civile, era però convinta che sarebbe stato necessario dare un surplus di finzione a quelle immagini e lavorò per anni a una sceneggiatura che ebbe diverse versioni fino a quella definitiva del 1985.

Quello che ne venne fuori è Ghazl el-Banat: un film mitico per la storia del cinema libanese, proprio perchè rivisita e rielabora più di dieci anni di immagini documentaristiche e di reportage con una storia che lascia la guerra sullo sfondo, eppure trova un modo per renderla ancora più visibile. Il filo conduttore è l’incontro tra Samar (Hala Bassam), 15enne flâneuse che vaga per i palazzi abbandonati e distrutti della città, e Karim (Jacques Weber) un artista cinico e disincantato, che ormai non crede più a nulla e che guarda ai gruppi armati che vanno in giro per la città con un misto di insofferenza e apatia. Beirut è davvero una città di fantasmi in questo film: disabitata, quasi completamente distrutta, piena di tracce di un passato splendore che sembrano il segno di un tempo archeologico, rappreso e svanito. Samar ne è affascinata, anche perchè guarda alla città con gli occhi di chi sta interrogando il mondo e nello stesso tempo sé stessa, il cui corpo sembra quello di una donna più grande dei suoi 15 anni e che inizia ad attrarre lo sguardo degli uomini, ma che nello stesso tempo continua a giocare per le strade come una bambina.

“Se non fosse stato per la guerra non ci saremmo mai incontrati” dice Samar, “e quindi la guerra è stata buona con me”. E in effetti la storia d’amore tra Karim e Samar, il cui incontro sembra solo alluso nel film (anche se la famiglia di lei è preoccupata a ricostruire chirurgicamente la sua verginità), è più un sogno che una realtà. Samar vaga nel palazzo decaduto di Karim, prova dei vestiti da donna, si guarda allo specchio, si perde nei quadri di lui, che sembrano vedere nel mondo solo forme astratte (ma che lei interpreta come segni concreti del “suo” di mondo). I sogni, che (dice Samar) “dicono solo la verità”, sembrano essere parte della realtà stessa. E quindi, quando il film alla fine ci porta nel mondo dei sogni di Samar, ci sembra di entrare in un territorio ancora più vero della realtà: dove Karim, l’artista sognatore, e il padre, l’operaio “concreto” che costruisce le tegole per i tetti della città, stanno uno accanto all’altro, e a cui Samar si immagina di sparare secondo un immaginario edipico dove la domanda che la muove sembra essere soprattutto il rapporto con la sua precoce sessualità.

In uno dei momenti più intensi del film, durante una passeggiata su un faro dove il giorno e la notte sembrano mischiarsi, Karim chiede a Samar “quanti anni hai?” e lei risponde “4000, 5000… io sono Beirut”. Perché forse il vero protagonista del film è proprio la città, onnipresente eppure nascosta sotto a un cumulo di macerie, che questo film ci sembra dire possa essere vista non per quello che dà a vedere (la macerie sono tutte uguali) ma per quello che nasconde. Non attraverso i propri oggetti concreti, i propri palazzi, le proprie strade, ma i propri fantasmi. Che forse sono il tipo di oggetti che il cinema può riuscire a farci percepire meglio di qualunque reportage. E di cui avremmo un grande bisogno anche oggi.