Qualche settimana fa è comparso sul sito Little White Lies un pezzo molto divertente e interessante: un diario che il critico newyorchese David Ehrlich ha scritto a proposito della sua trasferta al festival di Telluride, in Colorado. Un resoconto ora per ora, minuto per minuto (per quanto scritto evidentemente a posteriori), in cui l’autore ce la mette tutta – riuscendoci quasi sempre, per altro – a prendere in giro se stesso e il mondo in cui bazzica, tra viaggi della speranza su bus-navetta, notti insonni, colazioni ad alta quota con vip di Hollywood, visioni mattutine di film, code infinite, discussioni con sconosciuti, battute con gente famosa, frasi orecchiate, pareri a caldo, giudizi, cinismo urbano, snobismo, critica da nerd ed elegia del disadattamento.
Quello di Ehrlich – pur nella sua evidente ed esibita ruffianeria – è uno dei pezzi di critica più onesti che oggi si possano concepire. Perché a suo modo, con facile spirito dissacratore e scrittura limpidissima, porta allo stremo la critica stessa (o meglio, quella critica da vetrina digitale a cui volutamente aderisce), togliendo i film dal piedistallo della loro unicità e, in un sistema che produce migliaia di opere ogni anno e poi le programma in centinaia di festival, spostando il ragionamento non più sul prodotto, ma sull’evento che lo contiene. Il pezzo di Enrlich mette alla berlina sia l’occhio che guarda quel prodotto sia lo spirito che vive quell’evento, perdendosi senza paura in un rito sociale esclusivo e ridicolo. Senza essere un genio, ma semplicemente uno che sa scrivere, Ehrlich trova una vera e propria operazione critica non nella visione, ma nell’esperienza della visione.
La visione, in fondo – e lo sappiamo fin troppo bene da fin troppo tempo –, non basta più per fare una critica ancora ascoltata e riconosciuta. La visione rende tutti uguali, rende tutti spettatori, mentre l’esperienza trasforma ogni spettatore in un privilegiato, aiuta a ritrovare l’unicità. Ed è proprio lì, nell’unicità dello sguardo, che la critica prova (o deve provare) a cercare la sua porzione di tempo presente e il suo attestato di utilità ancora valido. Ovviamente, ricorrendo ai social come vetrina e luogo privilegiato (ormai quasi esclusivo) di scambio, dal momento che i social sono la realtà in differita e per questo lasciano un lasso di tempo sufficiente per esporre la propria esperienza, la propria unicità, e al tempo stesso per ragionarci anche un pochino sopra.
La vera questione attorno a cui oggi la critica si sta arrovellando (magari anche inconsapevolmente, nel suo stato di evidente crisi da bulimia di produzione e consumo), è una sola: come trasformare un film in esperienza?
Se non sbaglio, esiste anche un termine per esprimere tutto questo: “bracconaggio”, coniato da de Certeau e ripreso poi da Casetti. La tendenza, cioè, da parte dello spettatore, a svincolarsi dalla disciplina della visione e ad appropriarsi dell’esperienza: magari interpretando questo o quel film in modo originale; o riscoprendo questo o quell’autore dimenticato e mai del tutto compreso; o ancora riprendendo questo o quel titolo sottovalutato e passato in secondo piano rispetto ad altri. Allargando un poco l’ambito, si arriva poi facilmente ad altri tipi di bracconaggio, molto più usuali e diretti: il download quasi sempre illegale di un film; il privilegio di un invito a un’anteprima; la possibiltà di partecipare a un festival e soprattutto la voglia di farlo sapere via Facebook... Cose, insomma, che più o meno abbiamo fatto tutti, e che continueremo a fare a meno di non scegliere il silenzio mediatico.
La critica che si fa semplice spettatore, o le spettatore che si è fatto critico, oggi parte sovente dal presupposto che a contare sia soprattutto il privilegio dell’esperienza. Che a volte sta solamente nella particolarità del proprio sguardo o della propria diversità: basta un post di poche parole per trasformare un pensiero in un condotta di vita. E se per fortuna il live-blogging di un film non è una pratica diffusa (un film in fondo lo si vive come un’esperienza solitaria, al buio, seduti comodi e senza disturbi…), il post-blogging, cioè la pratica di esprimere un parere quasi mai richiesto dopo la visione di un film, è forse l’esercizio critico più fervido e decisivo oggi in voga (e anche qui lo pratichiamo praticamente tutti), la frase che fa trasparire il carattere di chi la scrive, il tono che fa intravedere l’incisività dell’autore, il linguaggio sotterraneo che si rivolge a una cerchia di reali e virtuali con i quali condividere linguaggi, passioni ed esperienze.
La colpa ovviamente non è di internet, perché chiunque di noi, anche il più rigoroso o volenteroso, ha almeno una volta nella vita commentato un film ad alta voce, subito dopo la visione. Come sempre, internet si limita ad amplificare un’azione comune – e fare i critici oggi, su Facebook o su Twitter, è un po’ come andare al cinema con gli amici: si sa chi risponderà, si aspetta una loro risposta.
Nel tempo dello scambio permanente, anche la critica, che non è un dialogo, è diventata suo malgrado una questione di botta e risposta. O di corsa a chi arriva prima, a chi mette la bandierina, a chi pubblica in tempo record lenzuolate di testo, a chi fa suo un film urlando (altro che cinguettii...) l’ho scoperto per prima io, l’ho capito per primo io, l’ho amato solo io, io vedo cose che voi non vedete, io so cose che voi nemmeno, questo film è bello, ok, ma quell’altro è tutt’altra cosa...
Il tempo della presa di distanza e del pensiero a freddo esiste ancora, figuriamoci. Esistono persone e articoli (non importa su quale supporto) che pubblicano cose egregie e approfondite: ma sarebbe difficile, oggi, negare che la principale forma di dibattito critico sia rappresentata dagli scambi di pareri su Facebook, che un giudizio espresso con un centinaio di caratteri sia considerato come un punto di vista argomentato; o, ancora, che tutti quanti siamo a caccia di Like e commenti, appesi volenti o nolenti alla condivisione di un pezzo, all’ossessione della reazione immediata, all’ansia di sapere se qualcuno leggerà, commenterà, apprezzerà… La carta non risponde, internet sì, e la dimensione del problema è in quel lasso di tempo fra il silenzio e la reazione.
La critica, oggi, va soprattutto in cerca di una cosa che internet rende immediata e visibile: la reazione. C’è chi le spara grosse, chi si mette controcorrente, chi si posiziona sempre più a sinistra o a destra di chi scrive; c’è che si riferisce a un ipotetico, e inesistente, pubblico di nemici, e chi si rivolge agli amici della cerchia. La stessa cosa riguarda anche la necessità o meno, attraverso i pezzi scritti su internet o sulla carta, di esprimere giudizi di valore a proposito dei film: ha ancora senso, per dire, consigliare, indirizzare, votare, stroncare, esaltare, massacrare, elogiare o criticare, dal momento che la democraticità del giudizio si abbatte come una mannaia su qualsiasi oggetto, tanto su capolavoro quanto sulla vaccata, ammesso e non concesso che si sia tutti d’accordo sul capolavoro e sulla vaccata?
Il critico si potrebbe ad esempio rintanare nella ricerca di una struttura, di un discorso comune e sottinteso a molti film, al di là della qualità o dell’importanza dei singoli prodotti e alla ricerca di una lettura moderna e attuale di ciò che il cinema produce di questi tempi. Ma a quel punto il problema non sarebbe trovare i film giusti da raccontare e leggere, ma individuare modi nuovi o stimolanti per raccontarli e leggerli, magari arrivando anche a utilizzare mezzi diversi dalla parola scritta, se per caso ci accorgessimo che il problema sta proprio nella scrittura pura e semplice.
Il problema sta soprattutto nella spada di Damocle del tempo che stringe, del pezzo che scade, del commento che non arriva, del giudizio che schiera da un parte o dall’altra, pro o contro, prima o dopo; nella necessità di scrivere il post che sparigli le carte, che obblighi alla discussione, che metta in evidenza il pensiero di chi l’ha scritto. Perché a essere in ballo non è nemmeno la scoperta di un nuovo cinema, o di un cinema che racconti il tempo e il mondo di oggi, dal momento che il cinema ha ampiamente dimostrato di cavarsela benissimo anche senza la critica: a essere in ballo è la necessità di inventarsi un nuovo modo di farla, questa benedetta critica, superando sia l’ironia del diario beffardo di un’esperienza, sia il giudizio sferzante (e colto, cinefilo, divertente, pieno di wit, pieno di passione) su questo film o quell’altro.
Il problema, infine (un problema per il quale le soluzioni potrebbero essere tante o per il momento nessuna), è che il cinema stesso, la sua pratica, la sua lingua o il suo linguaggio, dovrebbero tornare a essere esperienza di per sé, senza contesto e senza realtà in differita. Pura e semplice visione. Pura e semplice rappresentazione del tempo e delle sue pieghe, dell’uomo e delle sue debolezze, dei corpi e della loro bellezza. Anche nella consapevolezza che il modo migliore per commentare un film sia quello di lasciarlo lavorare in silenzio, e che dunque la critica, per essere al suo massimo, forse non dovrebbe proprio essere.
Oppure no. Oppure il pezzo non può finire così.
Oppure resta una consapevolezza altrettanto forte: la consapevolezza che anche nel tempo in cui chiunque può essere critico scrivendo due righe qui e centonovanta là, che anche nell’era della democrazia del gusto e del commento, ci sia comunque una distinzione chiara e riconosciuta fra chi il cinema lo ama e lo pratica come mestiere e chi il cinema lo ama, sì, ma in maniera più distaccata e disinteressata. E proprio per questo ha forse bisogno – senza vergognarsene – di una guida e un accompagnamento. A volte c'è chi scrive su Facebook cose belle e magari non richieste, e forse riesce a convincere qualcuno a riguardarsi un vecchio film, o a cercarlo nel caso non lo conoscesse. Chiunque abbia mai parlato alla platea di un cineforum o di un festival con un minimo di cognizione, questo lo sa benissimo – e di sicuro lo preferisce a un Like di Facebook.
Il senso della critica – evitando accuratamente di approfondire la distinzione fra accademia e critica sul campo – sta allora nel ridare forza a una dialogo debole per intensità e valore. Dialogo, di certo, non con i cento amici che non hanno bisogno di sentirsi dire chi è Béla Tarr, ma con tutti gli altri che all’idea di vedere un piano sequenza in bianco e nero dicono d’istinto “no grazie”, e poi magari finisce che se lo guardano pure, quel piano sequenza, perché hanno la pazienza di aspettare e magari emozionarsi... Il difficile è invitare ad averla, quella pazienza.
Forse dovremmo metterci tutti lì a stilare un decalogo delle cose da dire e non dire, degli aggettivi da evitare e dei luoghi comuni da rifuggire, delle formule trite e delle cadute di stile, dei vagheggiamenti onanisti e dell’esposizione di sé, che ovviamente sono contenute anche in questo testo e che uno si ritrova a usare suo malgrado. Un vademecum contro la pigrizia del pensiero, insomma, o contro l’ansia da prestazione, che insegni a pensare prima di scrivere e – senza arrivare alla foto di un asino sulla scrivania come si diceva avesse Brecht – che aiuti a trovare un modo di trasmettere la passione e non l’io che la prova.