Danzare sull’orlo del baratro. A cinquant’anni esatti dall’omicidio di Kennedy, Parkland racconta il fatidico 22 novembre 1963 mettendo in scena una galleria di personaggi implicati a vario titolo nell’ evento: medici e infermieri dell’ospedale dove il presidente fu portato dopo essere stato ferito, agenti federali e poliziotti di Dallas chiamati a far luce sull’episodio, il videoamatore Zapruder che filmò l’omicidio in diretta, i familiari di Lee Oswald, frettolosamente accusato di essere responsabile dell’assassinio del presidente.
Come nel pilot di una serie televisiva, il film introduce una nutrita galleria di figure sconcertate, disorientate e addolorate dalla portata dell’evento. Ma l’affabulazione di storie e casi umani che ruotano intorno alla morte di Kennedy alla lunga tramuta Parkland in una sorta di lauto antipasto ad una pietanza che non mangeremo mai.
Una galassia di vicende potenzialmente interessanti finisce per essere sacrificata sull’altare di un racconto corale che, per essere efficace, necessiterebbe di un’articolazione superiore a quella concessa dai novanta minuti del film. Strette nell’imbuto di un breve film di finzione, le storie raccontate da Parkland schiudono promesse drammaturgiche destinate a rimanere inespresse.
Alle prese con uno dei grandi traumi della storia americana, il film gira intorno all’orrore cogliendone le conseguenze sui volti smarriti dei suoi testimoni, tracciando una cartografia del dolore elegante e inerte come le statue di un museo delle cere. Impeccabile nella ricostruzione d’epoca – solita galleria di abiti, accendini e cappelli anni sessanta, già stucchevole nell’insopportabile Mad Men – il film elude il problema di una costruzione d’epoca, intesa come rappresentazione di un luogo della Storia abitato da sentimenti e destini autenticamente drammatici.