I film di Miyazaki vanno guardati entrandoci dentro. Bisogna togliersi le scarpe e avventurarsi a piedi nudi nel suo mondo, che ha le sue nuvole, i suoi paesaggi acquarellati, i suoi personaggi dai tratti infantili, con quelle smorfie buffe e i capelli che levitano leggeri sull’onda di un’emozione.
Succede anche in un film come Kaze Tichinu (The Wind Rises), che in parte lascia disorientati per chi è abituato a vedere in lui il cantore dell’immaginazione libera e della meraviglia bambina. Stavolta il maestro dell’animazione giapponese sembra troppo preoccupato di spiegare chi è il suo protagonista, Jiro Horikoshi, progettista di aerei, e la sua storia vera. Sembra meno libero e immaginifico del solito, preso com’è dal compito di introdurci nel mondo ermetico dei costruttori di aeroplani (con dovizia di dettagli, disegni, dialoghi didascalici). Sembra tradire l’idea che ci siamo fatti del suo cinema, un esercizio di magia e poesia che trasfigura il mondo, che ce lo fa vedere come appare agli occhi di un bambino (non importa se ancora piccolo o già adulto).
Eppure il mondo di Miyazaki è lì, in tutta la sua bellezza sussurrata, nella sua compresenza di sogno e realtà (è il mondo là fuori che si ostina a contrapporli). Anzi, c’è un protagonista che assomiglia proprio a Miyazaki, con la sua ossessione per il volo, la passione per le macchine e la meccanica, l’ostinata volontà di trasformare i sogni in realtà (attraverso i disegni).
Un gioco-sogno infantile che però si realizza in un aereo di guerra (il Mitsubishi Zero) le cui gesta sono tristemente note. E allora può urtare (in effetti l’ha fatto) il modo in cui il regista giapponese elimina il contesto, bypassa la storia, si limita a risolvere il dilemma morale (ma c’è un dilemma?) in un “non volevamo questo”. Ma non era quello lo scopo del racconto e al massimo gli si può rimproverare di non aver fatto abbastanza per chiarirlo (a parte un paio di dialoghi che sembrano scritti per scrupolo più che per convinzione). Vediamo però la distruzione, conosciamo l’equivoco fatale, sappiamo come la tragica realtà finisca per usare e devastare i sogni.
Kaze Tichinu, in realtà, sta tutto nella mente del protagonista, nel suo sogno ad occhi aperti, e in quella storia d’amore in cui Miyazaki dispiega il suo magnifico repertorio con la consueta commovente (libera) semplicità. Gli effetti sonori sono sostituiti da voci, come si fa nei giochi dei bambini. L’amore tra il progettista e la ragazza incontrata su un treno (gravemente malata) si dispiega visivamente e metaforicamente in un gioco con un aereo di carta, nelle sue traiettorie imprevedibili, in quegli slanci (del corpo, del cuore) che rischiano ogni volta di farli precipitare. Ma “quando il vento si alza, bisogna provare a vivere”, correndo il rischio di sbagliare o di perdere ciò che ami di più al mondo.
A volte succede con i film di Miyazaki, e in questo caso (con questo film imperfetto, in una cinematografica costellata di capolavori) accade certamente: guardandolo rimani come sospeso, indeciso, ti appare quasi incompiuto, poi ti cresce dentro, come se un pezzo di quel mondo (che è solo di Miyazaki, perché la sua arte non ha eguali) ti fosse rimasto addosso.