Rodolfo Bisatti

Al Dio ignoto

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Nel saggio Morte ogni pomeriggio, André Bazin riflette sul significato che la morte e il tempo assumono nella rappresentazione cinematografica. Dopo una lunga disamina sulla fotografia e, in particolare, sulla tecnica dell’imbalsamazione quale punto di arrivo delle arti plastiche, il teorico francese introduce l’affascinante concetto del complesso della mummia. Esso consiste nel considerare il cinematografo non soltanto come una macchina capace di riprodurre il reale, bensì come l’occasione per conservare e riprodurre le spoglie del passato evitando, così, che l’avvento della morte cancelli le tracce sensibili del tempo trascorso. In altri termini, il cinema conserva le apparenze fisiche e carnali sottraendole all’erosione del divenire e alla nullificazione della morte. Per questo motivo, Bazin si rifiutava severamente di prendere in considerazione tutti quei film che facevano della morte un evento spettacolare, scrivendo che «la morte, si vive e non si rappresenta […] o almeno non lo si rappresenta senza la violazione della sua natura. Questa violazione si chiama oscenità». Ora, cosa significa «rappresentare la morte»?

Il film Al Dio ignoto di Rodolfo Bisatti, presente da qualche giorno sulla piattaforma streaming Chili e selezionato in diversi festival in giro per l’Italia, si mette in dialogo con il pensiero di Bazin e riesce in quello che il teorico francese riteneva impossibile: rappresentare la morte non significa, per forza, violarne la natura attraverso una raffigurazione esplosiva o scandalosa anzi, Bisatti dimostra come sia possibile rappresentarla facendo uso di ellissi e sottrazioni. Se è vero, infatti, che lo spettatore moderno, scontrandosi quotidianamente con immagini che normalizzano la morte, riportandolo nei più rassicuranti lidi dell’oscenità, ha da tempo perso l’innocenza e il candore di Bazin, è altrettanto significativo notare come esista ancora un cinema capace di pensare in modo differente e meno roboante il vasto tema del fine vita e, nello specifico, quello delle cure palliative. Al Dio ignoto si inserisce proprio in quest’ultima categoria: dinnanzi ad un tema tabù, il regista padovano sceglie la via della delicatezza e della sensibilità mostrando come l’esistenza sia una sorta di interregno nel quale il visibile tocca l’invisibile e la vita sfiora la morte. Come insegna il professore di religione a Gabriel (Francesco Cerutti), melanconico adolescente che sta cercando una via personale per elaborare il lutto della giovanissima sorella morta di leucemia, «la vita e la morte sono collegate tra loro e ciò che c’è alla fine, è presente sin dall’inizio».

È con questa profonda consapevolezza che Bisatti tratteggia il tema del fine vita, ambientando il proprio lavoro in un hospice a Merano e scegliendo come protagonisti Lucia (Laura Pellicciani), madre di Gabriel nonché premurosa infermiera che accoglie e cura i malati terminali, e Giulio (Paolo Bonacelli), ex professore di filosofia morale che, tra una citazione di Giacomo Leopardi e una di Attilio Bertolucci, affronta i suoi ultimi giorni con la forza spirituale di chi ha scelto l’autodeterminazione. Tutti i personaggi del film sono legati tra loro non soltanto dal punto di vista lavorativo o parentale, ma da un filo ancora più sottile che funge da sostrato generale dell’esistenza: la possibilità della vita e l’attesa della morte. È forse per questo che Bisatti sceglie di tanto in tanto, di soffermarsi sulla folta natura circostante, sul ronzio di un’ape alla ricerca del nettare, sull’immensità del cielo stellato e sui boschi che circondano la casa di cura. Proprio come avviene per le magnifiche nature morte di Brueghel o di Bollongier, pronte a ricordarci con la vivacità dei colori e dei frutti la bellezza della vita e l’ineluttabilità della morte, il regista sceglie di mostrarci la morte solamente attraverso il controcampo della vita, e questa scelta prospettica si riflette a sua volta sul ritmo riflessivo della narrazione, sulla scelta di costellare il film con continui primi piani volti ad evidenziare le sfumature e le lotte emotive che muovo i protagonisti, e sull’adottare uno stile a metà tra la finzione e la vocazione documentaristica.

Al Dio ignoto è un film fatto di ossimori e di antitesi, che non si appiglia a nessuna certezza metafisica in quanto preferisce aprirsi all’esperienza autentica e difficile della cura. È proprio in questo rapporto triangolare tra vita, cura e morte che si muovono i personaggi: Laura sperimenta al contempo la capacità di offrire sollievo a Giulio, ma anche l’impossibilità di aiutare il figlio Gabriel nella sua elaborazione del lutto; Gabriel, a sua volta, reagisce all’assenza/presenza della madre e della sorella rischiando la vita in impossibili percorsi con la mountain bike; Giulio, invece, accoglie con serenità il proprio destino con la consapevolezza di chi, dopo aver vissuto intensamente i propri successi e fallimenti, non può che attendere l’avvento del «gran salto».

Da questo punto di vista, il riferimento al Dio ignoto del titolo, piuttosto che alla celebre poesia di Nietzsche, che pure viene citata nella pellicola, sembra richiamarsi a un versetto degli Atti degli apostoli dove viene scritto: «[il Dio ignoto] che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio». Lungi dall’essere un lavoro religioso, il film di Bisatti è comunque un lavoro sull’annuncio: rappresentare la morte significa lasciarla emergere come una forza rassicurante e spaventosa allo stesso tempo, e la sua presenza non consiste solamente, come voleva Bazin, nell’oscenità della sua rappresentazione, ma nella delicatezza del suo annuncio. Ed è forse partendo da qui che lavori come Al Dio ignoto ci fanno riscoprire la stra-ordinarietà di una vita che si spegne e, con essa, la pienezza di sentirsi vivi.

 

 

 

Al Dio ignoto
Italia, 2019, 121'
Regia:
Rodolfo Bisatti
Sceneggiatura:
Laura Pellicciari, Maurizio Pasetti, Rodolfo Bisatti
Fotografia:
Debora Vrizzi
Montaggio:
Rodolfo Bisatti
Musica:
Sainkho Namtchylak
Cast:
Erica Leeg, Francesco Cerutti, Krista Posch, Laura Pellicciari, Paolo Bonacelli
Produzione:
Kevin Granahan, Kineofilm, Laura Pellicciari, Rodolfo Bisatti

Lucia vive sola con il figlio adolescente Gabriel. Nella loro casa aleggia un’assenza: la figlia primogenita, Anna, morta di leucemia otto anni prima. Anche il marito, incapace di reggere questo evento, li ha lasciati soli. Lucia tenta di sopravvivere al lutto dedicandosi interamente alla cura di malati terminali, nell’hospice dove lavora, che saranno per lei dei veri maestri. In particolare, l’anziano professore Giulio che, narrando di sé e delle sue peripezie, le indicherà una strada possibile per la liberazione dalla sua angoscia. Il figlio Gabriel metabolizza la scomparsa della sorella adottando uno stile di vita temerario, per provare a sé stesso, e alla madre, che vivere veramente comprende il rischio consapevole della morte.

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