Antonio Gramsci scriveva che «ogni movimento rivoluzionario è romantico, per definizione». È difficile immaginare che Thomas Pynchon – e ancor meno Paul Thomas Anderson – abbiano mai letto quella frase, eppure in Una battaglia dopo l’altra (firmato da Anderson) come già in Vineland (romanzo di Pynchon del 1990 da cui il film deriva), rivoluzione e romanticismo sono due elementi inscindibili, due passioni che si inseguono continuamente, come utopia e allo stesso tempo disincanto, come euforia collettiva e malinconia individuale.
A scanso di fraintendimenti: non è un film sentimentale Una battaglia dopo l’altra anzi. Si tratta probabilmente del film di Anderson più svagato, farsesco e disarticolato, ma il romanticismo – inteso come moto che favorisce l’emersione dei sentimenti, dei legami, delle ferite che non si rimarginano – è il motore del racconto e la forza che tiene insieme (e divide) i personaggi. E forse proprio in senso gramsciano: non come ornamento emotivo, ma come energia che accompagna ogni tentativo di cambiamento, anche il più disordinato, anche il più sconfitto in partenza. Un romanticismo che non si esaurisce nella sfera dei sentimenti privati, ma si apre a un senso del tempo, a una sensibilità verso il mondo e le epoche in cui si vive. Un romanticismo capace di abbracciare ogni dimensione dell’esistenza: l’amore per una persona – sia essa partner, figlio o genitore –, per una causa anche quando appare irraggiungibile e, naturalmente, per la libertà.
La storia è quella di Bob Ferguson (Leonardo DiCaprio), rivoluzionario che, nei tardi anni Zero del nuovo millennio, si unisce al collettivo French 75, gruppo dedito ad azioni di sabotaggio e disturbo contro i centri di detenzione per immigrati in tutti gli Stati Uniti. Inizialmente Bob entra nel movimento più per attrazione verso la leader, Perfidia Beverly Hills (Teyana Taylor), che per reale convinzione ideologica, ma col tempo diventa – grazie alla sua esperienza di bombarolo – una delle colonne portanti del gruppo. Tra lui e Perfidia nasce una relazione intensa: insieme hanno una figlia e cercano di costruire una vita comune. Ma la pressione costante dell’FBI, e in particolare del colonnello Steven J. Lockjaw (Sean Penn) – suprematista bianco ossessionato da Perfidia, soprattutto sul piano sessuale – unita all’insofferenza della donna verso una vita borghese, finisce per dividerli. Sedici anni dopo, nel presente, Bob vive sotto falso nome insieme alla figlia adolescente Willa (Chase Infiniti): ha abbandonato la causa e conduce un’esistenza appartata, da reietto. Lockjaw, però, non ha mai smesso di cercarlo, e il suo ritorno in scena innesca una catena di eventi che costringerà entrambi, e anche Willa, a fare i conti con il passato.
Come suggerisce la trama, Una battaglia dopo l’altra è un film di genere che, pur portando con sé la poetica del regista californiano, non assomiglia a nulla del suo cinema precedente. Nemmeno a Vizio di forma, spesso richiamato dalla critica per la comune matrice pynchoniana, ma in realtà distante per registro e struttura. Anderson riprende i fatti di Vineland e li aggiorna, spostando la vicenda avanti di quarant’anni: la prima parte si svolge intorno al 2010 invece che negli anni Sessanta, la seconda nel presente invece che alla metà degli anni Ottanta. Ne risulta un contesto storico privo di qualsiasi carattere rivoluzionario, che trasforma il racconto in una sorta di astrazione, quasi una distopia: uno spazio-tempo sfuggente, indefinibile e proprio per questo sospeso, instabile e quasi perturbante.
È, e allo stesso tempo non è, l’America di oggi. Da un lato i riferimenti al presente sono evidenti – il controllo militare e coercitivo dell’immigrazione, le passioni politiche radicali e polarizzate, l’anima razzista come tradizione e motore della nascita della nazione – dall’altro, però, nulla diventa davvero specchio dell’America trumpiana. Come se ad Anderson non interessasse comporre un ritratto diretto e circoscritto – come fa invece Ari Aster con Eddington, che finisce per costruire un quadro degli Stati Uniti tanto chiuso quanto confuso, specchio di uno sguardo più ombelicale che realmente politico – ma piuttosto interrogare la storia, impossibile da raccontare e sintetizzare, del proprio Paese. Come già ne Il petroliere o in The Master, Anderson preferisce disperdere il racconto nello spazio e nel tempo – reali o immaginari che siano – producendo una traiettoria che non conduce a una meta (se non sul piano drammaturgico, ma in fondo il genere ha le sue regole).
Il suo Bob, alias Ghetto Pat, è l’incarnazione di tutto questo: una sorta di Lebowski del terzo millennio (e del resto nel film dei Coen riecheggiavano chiaramente suggestioni pynchoniane), che pensa, agisce e si muove in modo goffo, privo di direzione e apparentemente di ideali. Incarnazione del fallimento rivoluzionario, ma al tempo stesso sua unica possibile risposta. Perché anche il mondo controrivoluzionario che lo circonda appare altrettanto disfatto e morente: come Lockjaw, che con il suo corpo meccanico e i suoi ideali elementari, ai quali non riesce comunque mai a restare fedele, è destinato a soccombere.
Come in un western crepuscolare – forse il genere che più di ogni altro, in filigrana, corrisponde a Una battaglia dopo l’altra – a emergere è proprio questo mondo in decadenza, che Anderson dipinge come una sorta di direzione geografica: dai paesaggi urbani labirintici alla provincia rurale, fino al deserto, dove nel finale si svolge uno straordinario inseguimento d’auto. La scena non è solo un omaggio al genere, ma assume una valenza quasi astratta. Attraverso le focali lunghe che mostrano e nascondono le auto tra le cunette del deserto californiano, il regista descrive uno spazio infinito che si schiaccia su se stesso, dando solo l’illusione della sua vastità e intrappolando ancora di più i personaggi.
Ecco, se ci fosse un’immagine che racchiude il film, sarebbe quella delle muscle car riprese in campo lunghissimo, che sfrecciano sfocate tra i miraggi sull’asfalto e la grana del 35mm. In quel tremolio visivo si concentra l’irrisolutezza del racconto: il mito che si frantuma, i contorni che si confondono, l’immagine che rifiuta nitore e pulizia. Come se parlasse di qualcosa che non si riesce a raccontare e mostrare per davvero, allo stesso modo dei ricordi di Bob, annebbiati dalla droga e dall’alcol.
Perché quello raccontato da Anderson è un paese per vecchi, che assomiglia al cinema degli anni Novanta al punto da incarnarne anche lo spirito. Bob – che ha il corpo di DiCaprio ed è quasi coetaneo del regista – raffigura nient’altro che la propria generazione disincantata, pronta alla normalizzazione e capace ormai di rifugiarsi solo negli affetti (Willa, in questo senso, è il motore e il punto centripeto della storia). Eppure, pur sapendo che la sua rivoluzione è finita e che non c’è più spazio né tempo per ricominciare, quando si ritrova insieme a Sensei Sergio – maestro di karate e capo di una cellula che difende gli immigrati clandestini, interpretato da Benicio Del Toro – braccato dalla polizia, riesce ancora a pronunciare l’unica frase in cui crede e che riveste ancora di speranza: «¡Viva la revolución!».
Il rivoluzionario in declino Bob vive in uno stato di paranoia confusa, sopravvivendo ai margini della società insieme alla sua vivace e indipendente figlia Willa. Quando, dopo sedici anni, il suo acerrimo nemico riappare e Willa scompare, l’ex militante radicale si lancia in una disperata ricerca. Padre e figlia dovranno affrontare insieme le conseguenze del suo passato.