Esordio alla regia dell’attrice belga Veerle Baetens (Alabama Monroe), tratto dal bestseller Si scioglie (2017) di Lize Spit, La ragazza di ghiaccio concentra su di sé potenzialità e involuzioni, come prodotto indipendente studiato per una risonanza civile, esempio di scoscesa trasposizione della pagina scritta, sottrazione delle retoriche dell’infanzia, film a tesi che precipitosamente mira al suo bersaglio, in nome del rispetto di genere.
Una torbida e deviante confusione regna nelle vite dei personaggi, non in un’anonima Bruxelles dove la giovane Eva (Charlotte De Bruyne) lavora come assistente fotografa, ma nella piccola cittadina delle Fiandre delle sue origini, dove la comunità rurale arretra tra alcolismo, lutti non elaborati e binari patriarcali. Quando Eva, che ha reciso i legami con i disfunzionali genitori, decide di ritornare al paese natale per la commemorazione di un amico scomparso, porta con sé un doloroso bagaglio di ricordi (che la regista dissemina in flashback esplicativi), e un blocco di ghiaccio, correlativo di una violenza sepolta tra le colpe dei coetanei e l’omertà degli adulti, ma anche insolito dettaglio relazionato a quei momenti.

Coming of age che scocca la sua freccia come revenge movie in un telegrafato prefinale, La ragazza di ghiaccio si proietta nell’urgenza di una sensibilizzazione collettiva tramite linguaggi didascalici, non esitando a opacizzare le sfumature formali di un disperato affresco, a sacrificare le ambiguità psicologiche (persino di Eva, che da bambina è stata prima complice e poi vittima) a favore di dinamiche più consequenziali, a dissolvere le possibili tracce di un thriller dell’anima. Relegato in ellissi un decennio di maturazione, Veerle Baetens affigge nel presente della sua eroina dal passato monco solo il sopruso subito a determinarne l’identificazione come donna, in una nebbia di interrogativi che non progrediscono in sottintesi e che subentra a reggere l’interpretazione rarefatta di Charlotte De Bruyne. Dissesti di scrittura che appianano l’oscurità fiabesca e avvincente del romanzo (paragonato dalla critica ad Amabili resti di Alice Sebold) nella sua narrazione più distillata, con la vocazione propria della buona letteratura a inoltrarsi nella delicatezza dell’indicibile.
In atmosfere non localizzabili, da qualche parte tra Giochi proibiti di René Clément e le plumbee sordità provinciali di P’tit Quinquin di Bruno Dumont, La ragazza di ghiaccio non si preclude tuttavia una verità ardita, quella crudeltà dell’infanzia che nel passaggio verso l’adolescenza e i suoi scomposti e stridenti mutamenti svela il temibile dietro l’aura di innocenza, contro radicati tabù, qui sfidati persino nella distorsione della retorica dell’amicizia giovanile, non esente da contrasti selvaggi e fatali paure. Un affondo sociale dall’incedere scabro e dallo sguardo vitreo che non percorre tuttavia la strada del minimalismo di racconto, ansioso di trovare il suo appello magniloquente in un lacerante primo piano (che Jacques Rivette avrebbe giudicato abietto), incastonato in un fuori campo estremo, a cui presta coraggio la promettente Rosa Marchant (Eva da ragazzina, premiata al Sundance Film Festival). Ma se l’impatto di denuncia è indiscutibile, quanto la semplificazione di un’ingiustizia sta alla vita?
Eva è nata e cresciuta in un paesino di campagna che ha lasciato molti anni prima, rompendo i legami con tutti. Quando decide di tornare, dovrà affrontare i fantasmi del passato e il peso del trauma che si porta dentro.