È straniante pensare che Denis Villeneuve possa aver avuto nel passato una carriera diversa dal regista di fantascienza. Fin dai tempi di Arrival, infatti, Villeneuve ha coniugato il suo sguardo autoriale con la passione per il genere coltivata da sempre, misurandoli con pietre miliari (Blade Runner), con opere letterarie complesse da trasporre (Arrival e Dune, il romanzo) o con fallimenti epocali (il Dune di Lynch e non solo). In questo nuovo ambito di sci-fi digitalizzata, del vecchio Villeneuve, che pur aveva realizzato alcuni lavori di notevole tensione narrativa (penso soprattutto a La donna che canta, Prisoners e Sicario), non c'è più traccia, se non un identico rigore nella messa in scena.
Nel nuovo Villeneuve la complessità è stata soppiantata dalla spettacolarità, come è evidente anche in questo Dune - parte due, che rispetto al primo episodio ― poco più di un lungo trailer ambient propedeutico al sequel ― motiva la sua esistenza sull’esorbitanza dell'azione e sul viaggio di progressiva consapevolezza dell'eroe, con la benedizione paterna e silente di Joseph Campbell.
Dune 2 si congiunge con il precedente nel momento in cui il duca Paul Atreides (Timothée Chalamet) e la madre Jessica (Rebecca Ferguson) cercano rifugio presso i Fremen dopo essere scampati al massacro perpetrato dagli Harkonnen. Quello di Atreides è un percorso eroico irregolare, arzigogolato, non privo di una serie di aggiustamenti progressivi che ne alterano più volte la personalità, spiazzando le aspettative del pubblico. Il suo è un evidente percorso messianico, nell’attesa che un salvatore si riveli e guidi la riscossa, ma a ben guardare si tratta di una promessa d’eternità che cela un lato nascosto, imperialista, si sarebbe detto un tempo, di appropriazione culturale, potremmo affermare con linguaggio corrente: l’integrazione di Paul e della madre all’interno della comunità dei Fremen somiglia inquietantemente più a un tentativo di soppressione e successivo impossessamento della loro cultura su nuove basi che a un progresso rigenerativo. Tra le pieghe messianiche, Paul Atreides ha anche molto di Anakin Skywalker, non tanto, ovviamente, perché Villeneuve vi si sia ispirato, quanto perché Lucas fece rientrare nel sincretismo mistico di Star Wars anche il romanzo culto di Frank Herbert.
Tuttavia, c’è qualcosa della fissità ieratica (perlomeno nella prima parte) proposta da Chalamet che lascia perplessi, qualcosa che va oltre la caratterizzazione del personaggio che incarna, poiché riguarda invece una sorta di catatonica disidratazione espressiva evidenziata da insistenti primissimi piani pronti a soddisfare la fanbase del giovane divo più che le ragioni drammatiche. Sicuramente più coinvolgente, sul piano dei personaggi, la fisicità caciarona dello Stilgar di Javier Bardem e, soprattutto, la stilizzazione psicotica dello Feyd-Rautha interpretato da Austin Butler, capace di caracollare da una nefandezza alla successiva con le pose punk di un disadattato lascivo generato da un incubo, come se Elvis avesse assunto le pose di un tamarro suburbano.
L’evidenza dell’operazione è comunque tutta nella sua resa spettacolare, si diceva, in un lavoro concepito per le sale Imax che anche sugli schermi semplicemente panoramici gode di un’azione abilmente orchestrata e proposta con tocchi insoliti di originalità, come i corpi che cadono privi di vita dall’alto come dei gravi, intesi come introduzione a una serie di scene di battaglia animate da esplosioni ripetute, corpi a corpi, momenti di sapiente costruzione della tensione. Al di là dell’evidenza, però, ciò che appare maggiormente pregevole nel lavoro di Villeneuve è l’attribuzione discreta di una precisa simbologia cromatica e acustica ai personaggi, in grado di fornire caratteri differenti nelle condizioni di luce (di Greig Fraser, già Oscar per il primo episodio) e nel commento sonoro (di Hans Zimmer) a seconda della comunità cui si riferiscono. La luce suadente con cui è baciato Chalamet e la calda intensità desertica dei Fremen contrastano nettamente con le tonalità metalliche, talvolta desaturate fino all’annullamento in un bianco e nero fumettistico, dei crudeli Harkonnen; così come i suoni metallici e taglienti di questi ultimi sono in palese controtendenza rispetto ai toni accesi e intensi con cui sono caratterizzati i Fremen.
Nonostante questi accorgimenti, il limite di un lavoro così ampio ed eccessivo è però proprio la sua dismisura che, mentre induce il pubblico allo stupore per l’esemplare costruzione di un èpos bellico, in qualche modo lo relega in un angolo ad ammirare l’impeccabilità del dispositivo, rendendo così complicato il tentativo di penetrarvi e di farsi realmente coinvolgere. Chissà che non si riesca al terzo episodio, che prevedibilmente Villeneuve sta già scrivendo.
Paul Atreides si unisce ai Fremen sul sentiero della vendetta contro i cospiratori che hanno distrutto la sua famiglia. Di fronte alla scelta tra l'amore della sua vita e il destino dell'universo conosciuto, Paul intraprende una missione per impedire un terribile futuro che solo lui è in grado di prevedere.