La casa dell’amore - in questi giorni disponibile in streaming su Chili e a partire dall'11 gennaio parte della rassegna di Cineforum Ricomincio da cinque - è l’ultimo tassello di una trilogia iniziata da Luca Ferri con Dulcinea e continuata con Pierino, dedicata agli ambienti domestici. Tutti e tre i lavori, pur differendo per tematiche e formati, sono accomunati dal fatto di essere ambientati in degli appartamenti, talvolta ricostruiti e talvolta reali, che circoscrivono e determinano lo sviluppo narrativo: in Dulcinea il rigore e l’architettura formale degli spazi della Milano pre-tecnologica serviva per mostrare le nevrosi e le devianze di un moderno Don Chisciotte; in Pierino, la casa di Pierino Aceti diviene simulacro di un presente scarnificato, irraggiungibile, che si intravede solamente attraverso i nastri degradati di alcune VHS; infine, con La casa dell’amore, il piccolo appartamento di Bianca, transessuale sulla quarantina che vive nella periferia di Milano, è uno spazio eterogeneo che muta e si trasforma di continuo in base alle esigenze della protagonista.
È questo il primo elemento di novità che Ferri introduce nel capitolo finale della sua trilogia: se gli spazi precedenti, complice l’asetticità delle geometrie e il rigore formale della messa in scena, rappresentavano dei confini invalicabili nei confronti del mondo esterno, l’appartamento di Bianca è un luogo fluido ed eterogeneo che si apre al mondo senza tuttavia lasciarsi intaccare dall’esterno – non a caso l’altro è sempre in fuoricampo. È vero, infatti, che Bianca apre la sua porta a clienti, amici e possibili amanti, ma è il fuori che confluisce e si modella al dentro, mai viceversa.
In La casa dell’amore, il focolare domestico non è un luogo in cui rassicurare la propria esistenza (Pierino) e nemmeno lo spazio/prigione capace di riesumare i propri feticci (Dulcinea), bensì un’eterotopia nel quale le relazioni di potere, di classe e di genere confluiscono le une nelle altre talvolta contraddicendosi, talvolta specchiandosi e altre volte ancora sospendendosi. È forse per sottolineare questa pluridimensionalità dello spazio che Ferri libera il proprio film da ogni ricerca psicologica o intellettuale: benché l’incontro con Bianca, come racconta il regista in alcune interviste, abbia effettivamente dato vita ad un processo di intensa conoscenza reciproca e nonostante il candore e la potenza espressiva della donna vengano sempre messi in primo piano, ciò che più colpisce del film non è l’emotività di Bianca, ma l’attenzione voyeuristica verso gli spazi, gli oggetti e gli indumenti.
La centralità degli oggetti, spesso ridotti a veri e propri feticci utili a riti propiziatori (splendido e potente quello dedicato alle prostitute morte in cui Bianca beve da diverse bottiglie di champagne accendendo sempre una sigaretta diversa), sono un altro aspetto importante che lega La casa dell’amore con le altre due pellicole della trilogia. In tutte e tre le produzioni, infatti, Ferri vivifica a tal punto gli oggetti che circondano i protagonisti che l’intera narrazione sembra articolarsi attorno al fatto che essi vengano distrutti, scambiati o indossati. Ribaltando un po’ la prospettiva offerta da Barthes nei suoi Frammenti di un discorso amoroso, durante la “trilogia dell’appartamento” lo sguardo della macchina da presa si sofferma sulle cose discernendone la loro intima importanza e seduzione: ogni oggetto, che siano le arachidi spezzettate da Bianca o il carillon di Dulcinea, conserve la propria carica erotica tanto da tornare più volte, seppur in modi e circostanze differenti, all’interno di tutta la pellicola. È come se la caratterizzazione dei personaggi fosse compresa (ma non ridotta) a partire dagli oggetti che li circondano: il poster della mostra paterna, i braccialetti, gli elastici, il rasoio, i libri, le scarpe, la carne Montana, i tovagliolini, il cellulare Motorola, la cera delle candele che si adagia sulle bottiglie di champagne e ancora le sigarette, le siringhe, la biancheria intima, i peluche ecc. sono elementi che pulsano di una vita propria e che definiscono i contorni umani di Bianca.
In conclusione, per citare Dino Buzzati, sbarazzandosi di tutto il «ridicolo armamentario letterario», Luca Ferri dimostra come sia possibile ritrarre in maniera attenta e delicata la vita e la fragilità di una donna senza artifici retorici, intellettualismi o psicologismi di sorta. E al giorno d’oggi non è poco.
Bianca è una prostituta transessuale che nella propria abitazione riceve clienti, amici e consuma i piccoli rituali di una vita. Gentile e affettuosa, Bianca attende le chiamate di Natasha, la compagna che sta in Brasile e che rimanda ogni giorno il suo ritorno in Italia. Le telefonate con lei, le ninna nanne che Natasha le canta da lontano, il sogno di vederla tornare assumono, per la protagonista, la portata di grandi eventi in un tempo costruito sull'attesa, e scandito dalle abitudini – gli appuntamenti, il lavoro, la “cerimonia” per le prostitute morte che Bianca compie ogni giorno.