Su “Cineforum”, la rivista, sta per essere pubblicato un articolo nel quale mi soffermo sul contributo degli sceneggiatori a Birdman. La visione di The revenant induce a insistere sul punto, ribadendo l’importanza che gli autori dei copioni hanno – nel bene (Birdman) o nel male (The revenant) – nei film di Alejandro González Iñárritu.
Questa sua ultima fatica è stata scritta assieme a Mark L. Smith (il cui progetto era inizialmente stato pensato per altri registi, tra cui Chan-wook Park). La carriera del nuovo collaboratore di Iñárritu si è sviluppata tutta in campo horror con film – come Vacancy o The hole – nei quali le vicende narrate sembrano essere una specie di traduzione di videogiochi in cui, una volta che sia stato trovato un pretesto per dare l’avvio al meccanismo, questo poi funziona da sé, senza più bisogno di giustificazioni “esterne” e plausibilità, sottoponendo gli eroi protagonisti a una serie di prove (fuggire dagli inseguitori, nascondersi, ecc.) che si accumulano una dopo l’altra in modo largamente gratuito.
Iñárritu non avrebbe fatto altro che “gonfiare” con la sua personale inclinazione all’enfasi (le sottolineature musicali, che rimarcano i momenti nei quali ci si trova davanti al “trascendente”) la scrittura “videoludica” di Smith. Malgrado l’insistenza sui grandi temi (la famiglia, Dio, la vendetta) e la durata di ampio respiro, The revenant conserva infatti la chiara impronta di una narrazione che, più che portare a una reale evoluzione dei personaggi, accumula episodi largamente autonomi nei quali il protagonista viene variamente messo alla prova e lo spettatore viene coinvolto per mezzo di una “trovata” ogni volta diversa.
Un film come The revenant fa sorgere il dubbio che, di suo, Iñárritu sia fondamentalmente un regista da Guinness dei primati, per così dire. Che intenda, cioè, la regia soprattutto come performance atletica o come sfida da superare. In Birdman la molla era riuscire a fare una commedia tutta in piano sequenza, in The revenant si trattava di girare in condizioni proibitive (il freddo, la luce naturale e tutti gli inconvenienti di cui hanno parlato le interviste). In quanto regista da Guinness, non c’è che dire, siamo ai massimi livelli (le immagini sono di una bellezza mozzafiato, i piani sequenza sono stupefacenti, la gestione dei tempi narrativi rende lievi le due ore e mezza a chi voglia lasciarsi “intrattenere”). La commistione tra realismo alla Mel Gibson (il dettaglio – sangue, bava, ecc. – più vero del vero) e sospensioni metafisiche alla Terrence Malick lascia però molti dubbi sul suo “stile”.
Nord Dakota, 1823: Hugh Glass, trapper rimasto vedovo dopo l'uccisione della moglie indiana di origine Pawnee, guida con il figlio adolescente Hawk un gruppo di soldati americani e di civili per una battuta di caccia. Attaccati da una tribù di indiani Ree, gli uomini si mettono in salvo, ma durante un'escursione in avanscoperta Glass viene gravemente ferito da un orso grizzly. Dato quasi per morto, Glass viene lasciato alle cure del figlio, di un giovane soldato e dell'avido cacciatore Bridger, perché gli diano sepoltura mentre il resto della squadra avanza verso un forte americano. Durante la sosta, però, Bridger, ansioso di proseguire, uccide Pawnee e convince il giovane soldato a seppellire vivo Glass. Questi, miracolosamente sopravvissuto all'assalto dell'orso, testimone dell'uccisione del figlio e colmo di odio per Bridger, si risolleva lentamente dalla tomba, si mette in marcia come può e poco alla volta, sopravvivendo in una terra boscosa e gelata per via del rigidissimo inverno, insegue le tracce dell'uomo che lo ha quasi ucciso, consapevole di non aver ormai nulla da perdere.