Ma come può venire in mente a un essere ragionevole di rifare Susanna! di Hawks, se non l'archetipo certo la crème de la crème della commedia romantico-svitata anni 30? E come può l'essere in questione, più geniale che ragionevole com'era il Bogdanovich del 1972, riuscirci o almeno andarci vicino? In What's up, Doc? ci sono quattro valigie a scacchi al posto di due leopardi maculati. C'è il geologo-musicologo Ryan O'Neal che s'imbambola nel citare i manierismi del paleontologo Cary Grant («Lo mandai a casa di Cary, cui avevo chiesto di indicargli qualche gesto, qualche trucco, qualche segreto di recitazione, perché nel film doveva essere come lui. Ryan tornò »dicendo: mi ha detto solo di portare delle mutande di seta»). C'è una grande Barbra Streisand, che trascina il modello dell'eroina hawksiana in un territorio tutto suo, accentuandone in chiave comica la minaccia sessuale (produce intorno a sé un campo magnetico irresistibile quanto catastrofico), e sostituendo l'accento aristocratico della ragazza-di-Vassar Katharine Hepburn con la sua contemporanea, velocissima loquela newyorkese. A un certo punto Bogdanovich si stufò di sentir ribadire quella filiazione, e sostenne che nel suo film c'era meno Hawks di quanto non ci fosse Keaton. Anche in questo caso l'affermazione era una sorta di paradosso, pur se le citazioni da Keaton ci sono davvero e la seconda parte del film è un lungo carosello slapstick, non privo a tratti persino d'una violenza sennettiana. Quel che conta davvero è la raffinatezza dell'innesto: perché in quel week-end all'ombra rossa del Golden Gate la sutura tra dinamica screwball e meccanica slapstick produce uno strano effetto, quasi burattinesco, quasi brechtiano, una fusione fredda che ha fissato nel tempo tanto il potere esilarante quanto le scintille del romance.
Dove la fusione avviene in purezza e senza residui è in Paper Moon, che infatti propriamente una commedia non è, pur se difficilmente potremmo definirlo in altro modo. Qui emergono risonanze antiche e l'audacia d'autore è quella di chi si sente ormai beniamino degli dei e del mercato. Paper Moon è Il monello di Chaplin che corre libero sulle strade di Furore. Ritorna il bianco e nero e a governarlo è Laszlo Kovacs, un bianco e nero più nitido e tagliente di quello di Robert Surtees per L'ultimo spettacolo, un bianco e nero che controlla l'intero film, stilisticamente e moralmente, che ci pone alla perfetta distanza da una storia che potrebbe diventare – ci vorrebbe un attimo – troppo commovente o troppo conturbante. È come se Jackie Coogan e Tatum O'Neal si passassero il testimone a distanza di oltre cinquant'anni, al loro confronto tutti i bambini del cinema, da Shirley Temple ai piccini neorealisti, sono solo le facce confuse d'una classe elementare. Come Charlie e the kid, falso padre e falso figlio, così Ryan e Tatum, falso/vero padre e falsa/vera figlia, ordiscono truffe ai danni di un'America impoverita, nel loro caso dalla Depressione. Le strade delle piccole città del Kansas e del Missouri dove vagano vendendo Bibbie sono vuote com'erano vuote le strade degli slum dove il monello infrangeva i vetri e Charlie accorreva a offrire i suoi servigi di vetraio (mentre l'America di Furore era così affollata di casi umani), ma qui il vuoto d'un paesaggio abbagliante produce una sospensione, un'attesa, un principio di allarme in cui si stagliano i loro duetti privati o truffaldini, sempre più dominati dalla voce roca e dall'imbronciata astuzia della bambina. Se the kid era un furfantello nato, che dire di questa Tatum di nove anni che si mette a letto in canottiera per ascoltare Jack Benny alla radio e intanto fuma come un biscazziere? (Quel che possiamo dire è che oggi un'immagine simile non passerebbe il vaglio di nessuna autocensura). Tra i due complici c'è un'impalpabile tensione di incerta natura. Tatum vuole credere che Ryan sia suo padre, ma la sua è anche una sfida femminile. Prova davanti allo specchio le collane della madre ancheggiando comicamente, e comicamente si adopera in modo lecito e illecito per far sparire dal quadro una querula amante di lui. Certo quando alla fine, in quella scena meravigliosa, la vediamo riapparire in cima alla strada, mentre corre verso l'auto di Ryan con le sue gambette nude e la sua radio in mano, sentiamo che finalmente Charlie è stato vendicato, che a differenza di quanto accadeva a lui, quest'uomo potrà avere la sua kid e anche la sua libertà. L'emozione è così pungente «che ci vuole una grande battuta per contenerla: «Perché sei tornata?» «Mi devi ancora quei duecento dollari». Eppure. Eppure mentre si allontanano insieme su quella macchina scassata, diretti chissà dove, come non chiedersi che sarà di questi due? E per associazione involontaria può anche tornarci in mente un altro viaggio, di un altro falso padre e di un'altra falsa figlia, lungo le strade infinite di un Paese e di un'ossessione, nel più grande road novel della letteratura americana, che già Kubrick aveva trasformato in una commedia nerissima... E se insomma, nel riflesso ingannevole di questa luna di carta, avessimo intravvisto un bagliore della storia di Lo?