Si dice spesso che il cinema sia una forma d’arte prettamente moderna e che del moderno, oggi, erediti innanzitutto la sua inattualità: la pellicola, l’esperienza mediata collettivamente in un luogo pubblico com’è la sala cinematografica, l’intermediazione dello stato o delle case di produzione... tutte cose che lo mettono in crisi di fronte a quella polverizzazione dell’esperienza audiovisiva resa possibile dall’immagine digitale. Il cinema insomma - dice il senso comune - è un’arte vecchia, del Novecento (il secolo con cui tutti i reazionari vorrebbero chiudere i conti): il nuovo millennio ci porterà da qualche altra parte, a fare esperienza di un altro tipo di immagine, da vedere da soli e in un luogo privato. È per quello che è così interessante avvicinarsi alle riflessioni di Jean-Luc Godard, che invece questo senso comune negli ultimi ci ha sempre tenuto a rovesciarlo. La sua idea, già a partire dalle Histoire(s) du cinéma – il monumentale film saggio uscito in otto capitoli lungo dieci anni dal 1988 al 1998 e che è probabilmente l’opera teorica più importante della sua carriera – è che il cinema invece abbia mancato l’incontro con il suo secolo. Il cinema non è un arte del Novecento perché invece che esprimere fino in fondo le sua possibilità pittoriche, ha deciso di farsi illustrazione delle storie del romanzo dell’Ottocento. L’immagine cinematografica insomma, invece che essere se stessa è diventata un’illustrazione della parola scritta. Si è messa, per così dire, accanto alla parola e da lei si è fatta soggiogare.
Image et parole dunque, immagine e parola, com’era originariamente il titolo di questo film e che poi è diventato in corso d’opera Le Livre d’image, cioè il libro dell’immagine e che è arrivato ieri a Cannes come se fosse un alieno, in mezzo a un cinema con il quale ha molto poco in comune (e al quale ha anche molto poco da dire, mostrandogli semmai tutta la propria estraneità). Perché se l’immagine quando diventa illustrazione di una narrazione tende a unirsi e a “fare Uno” con la parola, Godard ha invece sempre pensato che il cinema potesse e dovesse restituire tutta la divisione e la natura “spezzata” e “antagonistica” del visivo. Le Histoire(s) non era nient’altro che questo: un tentativo di ridare voce alla dimensione pittorica e intransitiva dell’immagine per liberarla dalla gabbia che la legava alla parola. Intransitiva (o sterile come direbbe Deleuze) perché l’immagine deve liberarsi dalla “violenza della rappresentazione” (come dice Godard citando Said) attraverso la quale finisce sempre per riferirsi a qualcosa d’altro da sé, per iniziare invece a riferirsi solo a se stessa. In questa contro-storia del cinema, dove si andava proprio a “redimere” l’immagine dalla parola nella quale era nata, c’era però già implicito un problema (come giustamente notato da Jacques Rancière ne La favola cinematografica): e cioè che questo atto di redenzione dal sapore benjaminiano, finisse invece fatalmente per legare indissolubilmente immagine e parola a essere l’una il rovescio dell’altra (o per meglio dire, di fare dell’Altro il rovescio dell’Uno). Godard ha sempre tentato di usare la parola non come “collante” dell’Uno, ma come arma per spezzare l’unità dell’immagine (così come in Adieu au langage si usava il 3D per mettere una macchina da presa contro l’altra), anche se ha finito così per essere costantemente abitato dalla spettralità di ritorno dell’Uno. Per dirla più chiaramente, se l’immagine può essere redenta dal suo legame con la parola, il rischio è di dover sempre partire dalla parola – e di aver bisogno di essa – per riuscire ad arrivare a una dimensione autenticamente pittorica/intransitiva. E quindi, come dice Rancière, di non poter uscire mai dal modello del cinema illustrativo-narrativo (anche se nella forma del suo Altro).
Questa dimensione teologica del legame dell’immagine con l’Uno è quello che Godard prova a rompere in questo stranissimo film dove l’estremizzazione del gesto di rottura dell’immagine con l’universo della sua significazione viene sottoposto a un’accelerazione e un salto di livello, anche rispetto alla stessa filmografia recente di Godard. Non c’è più solo la digitalizzazione più grezza dell’immagine, i salti di volume dell’audio (e la sua peggior qualità possibile), e lo straniamento provocato dalla proliferazione di scritte sovraimpresse e dai commenti della sua voce fuori campo. C’è anche l’utilizzo di formati sbagliati e un uso volutamente disordinato dei sottotitoli in inglese (con una geniale inclusione del paratesto festivaliero dentro al dispositivo del film). Il risultato è un’opera che quanto meno nella prima parte sembra voler estremizzare la dimensione centrifuga del senso. L’immagine non è più in un rapporto dialettico con la parola e la significazione: si dispiega orizzontalmente tramite uno scivolamento metonimico – e più che interrogare che cosa voglia dire si tratta di “toccarla”, o di pensarla “con le mani”, come si dice all’inizio del film. Non c’è più bisogno del gesto di detournement o di straniamento, perché la proliferazione di senso è ormai indistinguibile dal non-senso in un labirinto dove è impossibile non perdersi. In quello che sembra davvero una versione godardiana di Finnegans Wake, non manca comunque la consueta divisione in capitoli: i primi tre – Remakes (o Rim(ak)es), le sere di San Pietroburgo, e uno interamente dedicato ai treni (dai piombati nazisti a Medvedkin) – rappresentano la parte più formale del film. Ma è nella seconda parte – lo spirito della Legge e poi i Paradisi Perduti dell’Arabia gioiosa – che si capisce meglio la posta in palio teorica di Le Livre d’image. Perché è nel mondo arabo che sembrerebbe possibile trovare un diverso rapporto tra la parola, l’immagine e la significazione (un mondo, ci dice Godard, che nessuno conosce perché esiste solo come Altro in relazione a quell’unico paese occidentale del Medio Oriente di cui si interessa l’Europa e l’America). A fare da guida è la storia di Une ambition dans le désert di Albert Cossery, esempio di speculative fiction anni Ottanta in cui si raccontano le vicende di una strana cospirazione terrorista di un paese di cui le potenze imperialista non si interessano perché è privo di petrolio. Tuttavia a Godard non interessa l’Altro in senso culturale, ma pienamente formale. Come ha mostrato recentemente il lavoro della filosofa e psicoanalista americana Joan Copjec sul mondo islamico, c’è lì una dimensione simbolica che sembra emanciparsi dalla dialettica dei continui rovesciamenti dell’Uno e dell’Altro e che va nella direzione semmai di un Non-Tutto, cioè di una proliferazione significante che sembra non trovare un punto d’arresto definitivo nel senso (come Lacan diceva proprio di Finnegans Wake di Joyce). Il sottotitolo del film doveva infatti essere “papiro” – come vediamo all’inizio nella forma di una bobina di pellicola che si srotola – senza inizio né fine. Non un libro di immagini, ma un libro d’immagine, cioè un’immagine che non si totalizza né si perimetra come un libro, ma che si srotola senza un inizio né una fine. "Questo film non ha né capo né coda" – diceva qualcuno fuori dalla Sala Lumière – pensando forse di liquidare quella che è la più disturbante (ma anche interessante) qualità di quest’opera, e cioè proprio la sua struttura non-tutta e l’impossibilità di poterci mettere un punto, e di poter scrivere una volta per tutte la parola fine.