Nella filmografia di Nanni Moretti si scorge un tema ricorrente, forse decisivo per comprenderne l’evoluzione: la responsabilità verso i figli. E dunque il dovere di educarli, la paura di perderli, la speranza di ritrovarli.
Il giovane incazzato verso una o più generazioni di adulti da accusare (la sfuriata sul corpo della madre suicida in La messa è finita, il rimpianto rabbioso verso i ricordi d’infanzia in Palombella rossa), con Aprile e il racconto della nascita del figlio Pietro è diventato un genitore che sente il bisogno di tematizzare le sue paure: la morte (La stanza del figlio), la separazione (Il caimano), la solitudine dopo la morte della madre (Mia madre). E se Habemus Papam è un film sul terrore e sul dovere di assumersi della responsabilità (compresa quella di rinunciare), Tre piani, tratto per la prima volta da un soggetto non originale (viene da un romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo), costruisce un incrocio di storie e di caratteri in cui dominano temi come il peso dell’educazione, l’obbligo della protezione, la fatica dell’accudimento.
Moretti usa il cinema per placare l’angoscia, e in questo suo nuovo film, girato nel 2019 e poi bloccato dalla pandemia, crea un’atmosfera ovattata e sonnolenta in cui immerge pulsioni violente e violente recriminazioni. Senza il solito distacco soggettivo e senza ironia, il film procede per blocchi fissi e “celibi”, privi di legami narrativi con ciò che li precede o li segue immediatamente, in un clima reso desolato e quasi sonnambulo dallo sguardo “a distanza” della macchina da presa.
La camera resta fissa, al massimo si muove con lente panoramiche, le scene sono brevi, gli stacchi di montaggio meccanici, con al massimo qualche dissolvenza al nero, i piani d’ambientazione sono piatti, gli spazi esterni vuoti, Roma è un semplice sfondo. La palazzina al centro del film, che nel romanzo dà corpo coi suoi tre piani alle istanze intrapsichiche dell’es, dell’io e del super-io, è una scenografia indifferente, sfondata nella prima scena e da quel momento mostrata per ciò che rivela.
Tre piani, dunque, e tre storie parallele: al piano terra quella di un padre ossessionato (Riccardo Scamarcio) da un episodio che ha coinvolto la figlia e un vicino di casa anziano; al piano intermedio quella di una madre (Alba Rohrwacher) lasciata sola dal marito in viaggio, alle prese con una neonata e con il fantasma della follia; al terzo quella di una coppia di giudici ai ferri corti con un figlio responsabile di un omicidio stradale. Per sé Moretti si ritaglia il ruolo del giudice inflessibile, colui che caccia di casa il figlio omicida e costringe la moglie Dora a tagliare i ponti con lui: in una scena molto bella, l’uomo cancella dalla segreteria tutto ciò che gli rimane del figlio, la sua voce da bambino. Ed è come se il regista-attore interpretasse il fantasma della propria inflessibilità, tramutata qui in maschera d’indifferenza e lucidità. La moglie Dora, interpretata da Margherita Buy, che all’amore per il figlio preferisce la protezione della coppia, incarna invece il desiderio di tornare alla vita, di aprirsi dall’interno all’esterno (e no, non è una predizione della condizione di prigionia della pandemia: che la borghesia si senta ingabbiata nei propri stessi spazi lo sappiamo da almeno due secoli).
Nel film ci sono genitori, figli, figlie, neonati, bambine, ragazze minorenni, adulti che soffocano con il loro amore, che condannano con il loro giudizio, che abbandonano con il loro terrore: è una commedia umana, dove però il respiro della vita è bandito e la Legge degli uomini, quella scritta dello Stato e quella tacita delle convenzioni, incombe su tutti, spietata o misericordiosa in base a criteri che nessuno può controllare.
Nella solitudine dell’esistenza, gli adulti di Tre piani sono chiamati a uscire dal cono d’ombra del proprio sguardo e a vivere il peso dell’educazione, a trasmettere calore e protezione, a uscire dal regno del proprio io e costruire una famiglia, una comunità.
A partire da questo incombente, opprimente peso del dovere, sul film grava una cappa di pesantezza, di torpore greve, accentuato dallo stile di recitazione imposto da Moretti ai suoi interpreti: fissi, monotonali, imbarazzati e talvolta, va detto, imbarazzanti nel disagio nel mostrarsi e nel parlare a figura intera o in lunghi primi piani che fanno emergere, come si dice in Mia madre, l’attore o l’attrice a fianco del personaggio e mettono a nudo due figure distanti.
In Tre piani a mettersi a nudo è in realtà tutto il cinema di Moretti, che senza il filtro della personalità del suo regista – abituato a stare accanto al proprio film, a costellarlo di momenti in cui la finzione del racconto e la realtà della figura pubblica si scontrano – s’inceppa e arranca. Volutamente o meno, tra momenti di grande intensità (i monologhi di Dora alla segreteria del marito morto, le scene sospese fra realtà e sogno fra la madre lasciata sola dal marito e il fratello fuggitivo di quest’ultimo; il bosco fiabesco in cui sono ritrovati il vecchio e la bambina) e altri più goffi (il tango finale per le strade; l’incontro sognato fra la madre fuggitiva e la figlia ormai cresciuta), in Tre piani la vita è assente, lo spazio e il tempo sono dimensioni univoche e separate.
Sugli impulsi e sui desideri domina il pensiero razionale: per Moretti, oggi, il cinema serve a questo, e Tre piani, scritto con Federica Pontremoli e Valia Santella, è la messinscena dei suoi incubi; forse, al termine di tutto, anche delle sue speranze.