Sia sempre benedetto il caso diplomatico. Sedicenti "Guardiani della pace" rivendicano un attacco hacker alla Sony Pictures, paralizzandola per ore, e poi minacciano un nuovo 11 settembre (a dicembre) nei cinema che avranno l'ardire di proiettare il film. La Corea del Nord è lo spauracchio individuato dall'Fbi come responsabile.
La Sony che annulla la prima e ritira il film dal mercato. La levata di scudi delle star hollywoodiane a suon di tweet indignati contro l'autocensura preventiva. Obama che scontenta i falchi e derubrica l'azione della Corea del Nord come cybervandalismo e non come un atto di guerra, strigliando la Sony per essersi fatta intimidire. La Sony che accantona la sua ritrosia e fa uscire dopo pochi giorni il film, incassando un milione di dollari solo nel giorno di Natale e oltre 15 dalla vendita online.
La Corea del Nord vede il film, lo bolla come «disgustoso» (lo pensano anche molti critici americani) e definisce Obama «scimmia…» («sconsiderata», «nella giungla», «nella foresta tropicale»: dipende dall'agenzia di stampa). Mentre l'Fbi ad un certo punto sospetta - molto prosaicamente - di Lena (eh, Lena…), fittizia dark lady, in realtà ex dipendente della Sony lasciata a casa a marzo.
Verrebbe da dire: che paratesto! Nemmeno The Blair Witch Project, che solo di paratesto e movimenti di videocamera era costituito, uscì accompagnato da questa attesa. Dispiace quasi che ci sia un film dietro, che non sarà mai al passo con il clamore suscitato dalle notizie anticipatorie.
E il film è esattamente ciò che ci si aspetta dall'accoppiata Seth Rogen e James Franco (già rivelatisi nel precedente, Facciamola finita): dialoghi spesso nonsense, giochi di parole, trivialità diffusa a piene mani, doppi sensi che fungono da pretesto per muovere il film stesso. Il tutto inserito in una vicenda che parte come satira della televisione americana - assolutamente velata, per carità, perché fin troppo facilona e demenziale - e si trasforma in corso d'opera in un'improbabile spy-story sul suolo coreano (ricreato in Canada) e in un action effettistico verso la fine.
Che i film realizzati da Evan Goldberg e Seth Rogen (come registi, ma anche come sceneggiatori) abbiano un problema di rigidità della struttura è innegabile. Le loro storie sono spesso materia gommosa plasmata da mani capienti ma tutt'altro che sapienti, e il rischio, ma forse anche il fascino, è che la materia gommosa debordi per spargersi un po' ovunque. In The Interview si tende a sbandare meno, probabilmente perché si segue un preciso filo conduttore, quello dell'incontro con il dittatore coreano Kim Jung-un, a cui, occorre dirlo, pur guardandosi le spalle d'ora innanzi dai possibili attacchi dei Guardiani della pace, Randall Park (l'attore che lo interpreta) fornisce un aspetto più plausibile della realtà che le fotografie ci illustrano e una statura hollywoodiana che neanche Errol Flynn con quell'imprudente di Custer.
La falsariga (dichiarata) è l'intervista Frost-Nixon, l'intento è lo stravolgimento farsesco di ogni singolo risvolto della vicenda narrata, professionale o spionistico che sia. In questo modo, ad esempio, l'abboccamento con il dittatore si trasforma in amicizia cameratesca mostrata con un montaggio quasi scratchato, l'arrivo notturno di una nuova arma inviata dalla Cia tramuta l'ipotesi di suspense nell'ennesima divertente gag a sfondo sessuale.
Nella sua completa slabbratura, The Interview basa tutta la sua comicità sulla felice interazione tra Seth Rogen e James Franco, e (complice la sceneggiatura) sul loro inesauribile milking, la capacità di mungere la scena fino allo stremo, sfruttandone ogni più piccola potenzialità (arrivando addirittura a strizzarla, talvolta). Non basta per farne un buon film (in questi giorni sono fioccate le candidature per i Razzie Awards, che non arrivavano certo dalla Corea), ma se lo si affronta irrazionalmente, si ride di gusto.
Probabilmente Seth Rogen e James Franco non saranno mai Jerry Lewis e Dean Martin o Walter Matthau e Jack Lemmon, ma alzi la mano chi non uscirebbe una sera in loro compagnia per bersi un paio di birre. Nordcoreani esclusi, ovviamente.