Capre e sangue. Un piccolo paese della Calabria che diventa cuore pulsante di traffici di droga, da nord a sud, tenuti insieme da una famiglia, allargata in clan. I riti arcaici, la tradizione pastorizia, la spirale affettiva, fatta anche di odio, tradimento e morte, con l'impossibilità di spezzare i vincoli mafiosi, rappresentano il contesto sociale in cui si svolge Anime Nere di Francesco Munzi, primo film italiano in concorso, tratto dal romanzo omonimo di Gioacchino Criaco.
«Un libro che racconta la Calabria dal di dentro perché non si possono comprendere le storie di queste famiglie legate alla 'ndrangheta, se non le si conosce da vicino. All'interno dei nuclei famigliari mafiosi ci sono un odio e un amore diffuso e una gran voglia di dire basta a una storia infinita».
Un po' come in Luna Rossa di Antonio Capuano, nel film si seguono i meccanismi umani e psicologici che si scatenano all'interno di un clan, tra istanze vendicative e desiderio di rottura. Come spiega l'autore e co-sceneggiatore Criaco, i tre fratelli protagonisti di Anime Nere sono attraversati da tutti questi elementi: Luigi è un trafficante internazionale di droga; Rocco vive a Milano e fa affari con le imprese riciclando denaro sporco; Luciano vive in Aspromonte e spera di tornare a vivere in una civiltà contadina onesta, ma il figlio adolescente cresciuto in quella sorta di deserto sociale preferisce seguire lo zio trafficante e affiliarsi al clan.
Una storia normale, tutto sommato, che non siamo abituati a vedere ma ne constatiamo le conseguenze ogni giorno. Milano, il nord, il controllo del territorio e degli affari in Lombardia è molto imponente da parte della 'ndrangheta e il film riesce a suggerire, in parte, anche questo. Africo, il paese calabrese in cui risiede la famiglia, con le madri e mogli, donne di mafia che vivono nell'omertà e caldeggiano la vendetta, aveva già attirato l'attenzione di Corrado Stajano a fine anni '70. Nel suo libro, questo paesino diventava luogo e metafora di un'Italia malata, di uno Stato incapace di sradicare le radici mafiose dal proprio territorio, anzi, più spesso alimentandone la crescita.
«Quando sono arrivato in Calabria per lavorare al film, ero pieni di pregiudizi - racconta Francesco Munzi. - Il paese in cui abbiamo girato era un luogo stigmatizzato dalla letteratura giornalistica e giudiziaria. Africo è uno dei centri nevralgici della 'ndrangheta, ma nel giro di pochi giorni ho scoperto una realtà complessa e variegata. Ho visto la diffidenza degli abitanti trasformarsi in curiosità e le case aprirsi a noi ed è stato possibile coinvolgere la gente nel progetto».
Con questo approccio quasi antropologico e documentaristico il film mantiene uno sguardo realistico. L'utilizzo del dialetto, utile a creare una barriera linguistica e fisica con il mondo esterno, rende ancora più denso il rapporto tra i componenti della famiglia. Rispetto al libro è stata cambiata l'epoca, che dagli anni '70 è stata trasportata ad oggi; i tre fratelli nel libro erano tre amici e qualche modifica è stata apportata nel finale. Da non rivelare, ma simbolicamente molto forte e anche un po' catartico.
Parte essenziale nel film, come nel libro, è l'aspetto arcaico di una cultura che si avvale di riti pagani e di usanze contadine, espresso da un paesaggio cupo e selvaggio e che solo in alcuni rari momenti, molto studiati, concede la bellezza solare del mare.
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