A Saverio Costanzo piace giocare con gli stilemi di genere, farli incontrare, cambiare registro, costruire e poi scartare verso qualcos'altro, sovrapporre e mescolare le carte. Non è un gioco facile ma una sfida ambiziosa che, in questo film più che altrove, riesce a condurre con credibilità.
L'inizio di Hungry Hearts, secondo film italiano in Concorso a Venezia, è imprevisto e folgorante. La commedia: un incontro improbabile, la toilette di un ristorante cinese di New York, l'imbarazzo che si trasforma in imprevedibile complicità. Lei è una ragazza italiana minuta, esile, vestita di giallo e lui un ingegnere americano in abito scuro, alto, con i lineamenti sghembi e la voce profonda. Si piacciono, si amano, si sposano. Lei, sola oltreoceano, con una mamma morta quando era piccola e un papà con cui non parla in Italia, rimane incinta. Finalmente avrà la sua famiglia e riuscirà a compensare il senso profondo di solitudine che si prova lontano dai propri punti di riferimento, quelli che non ti sei scelto ma che hai perché ti sono stati dati, volente o nolente, nonostante tutto.
Le novità, le conoscenze, le esperienze nutrono ma spesso non sfamano del tutto l'appetito emotivo e affettivo di chi è lontano dalla propria casa. Finché non se ne costruisce una nuova, propria. Questo sono Jude e il bambino che sta per arrivare per Mina: la sua nuova, unica, casa. Eppure, invece che riempirle lo stomaco e il cuore di gioia, questa nuova casa e l'ansia di proteggerne l'integrità e la purezza la rendono sempre più inappetente tanto da diventare lei stessa e le sue ossessioni il primo pericolo per le fondamenta stessa della casa.
Il gorgo psicologico di Mina trascina la sua famiglia/casa altrove strappando il film prima alla commedia e poi al romance, precipitandolo progressivamente nella tragedia fino a spingerlo nella tensione drammatica del thriller.
L'integralismo psicotico con cui Mina vive le sue ossessioni salutiste e igieniste prima mettono a repentaglio la gravidanza poi la salute stessa di quel bambino nato e rimasto per tutto il film senza un nome. È semplicemente "the baby" perché più che una persona, una nuova vita da creare per poi accompagnarla ad affrontare una propria esistenza autonoma, è un oggetto da proteggere, da tenere segreto per preservarlo da qualsiasi possibile contaminazione, da custodire per essere sicuri di esserne gli unici proprietari.
E così la nevrosi trasforma quella famiglia/casa nella prigione di tutti: imprigiona la mente di Mina, il corpo che non cresce del bambino, l'amore di Jude per sua moglie. Stanno tutti e tre lì in quello spazio che si deforma filmato attraverso le ottiche che ne accentuano la natura paradossale e patologica spingendo il film quasi verso l'horror.
Costanzo sceglie infatti di girare in pellicola, di tradurre attraverso la grana dell'immagine analogica e delle sue possibilità, la complessità delle cose della vita. Lo aiuta, e non poco, Adam Driver la cui statura attoriale, oltre che fisica, consente al film di raggiungere una credibilità altrove messa a repentaglio da incongruenze e debolezze; se ne giova anche la Rohrwacher aiutata dallo spaesamento geografico e linguistico e dall'interazione con Driver a giustificare quel suo essere sempre e comunque decalée.