Steven Soderbergh

Presence

film review top image

Soderbergh, malgrado alcuni lavori perlomeno interlocutori, dovuti anche alla sua grande prolificità, conserva intatto il gusto per la sperimentazione, nell’ambito di una ricerca personale volta a sondare i limiti dell’inevitabile connubio tra sguardo e narrazione. Dell’intero cinema, non solo del suo, altrimenti non si spiegherebbe la spinta che lo ha indotto a rimontare I cancelli del cielo di Cimino cambiando l’ordine dei fattori e proponendo una storia parallela (in Heaven’s Gate: The Butcher’s Cut, visibile sul suo sito). Presence, realizzato prima di Black Bag ma uscito in Italia oltre due mesi dopo, si colloca apertamente su questo versante sperimentale, attestandosi completamente su un paradosso. Quello di uno sguardo disancorato, libero, onnipresente e onnisciente, addirittura al di fuori del tempo e quindi collocato su medesimi spazi ripiegati in un ciclico eterno ritorno. Presence è infatti fondato interamente su un criterio di visione indecidibile, di fatto assoluto, continuo ed etereo e apparentemente privo di soggetto.

Una casa, una famiglia con qualche squilibrio, un’entità che osserva e veglia su tutto. Lo sguardo che informa l’immagine e motiva l’intera narrazione è la presenza del titolo. Una presenza, al di là della sua natura, doppiamente fantasmatica che fa inscrivere il film nell’horror, giusto per restare nelle dinamiche di genere care a Soderbergh, quelle strutture fisse da cui parte per esplorarne i criteri di visione attraverso i meccanismi predeterminati del racconto. La costante stilistica è un’inquadratura fluida, incessante, che osserva i personaggi, talvolta li lambisce, li tallona o invece li precede, li spia da dietro gli angoli per poi abbandonarli e seguire i movimenti di altre figure all’interno della casa. Una soggettiva. Forse. Una volta, in tempi imperanti di semiologia del cinema, si sarebbe detto ocularizzazione interna primaria, alzando fieramente il sopracciglio, ma con un distinguo fondamentale: lo sguardo di Soderbergh tende al grado zero, perché, pur osservando tutto, perlomeno fino al twist finale (sorprendente, soprattutto perché piuttosto illogico), non si identifica con nessuno, come se l’intero dispositivo filmico fosse posseduto da un’intelligenza spettrale, per l’appunto.

Il soggetto è presente ma smaterializzato: non ha corpo, però possiede sprazzi di volontà e barlumi di coscienza, oltre quella del puro osservatore che muta obiettivo di visione in corso d’opera. È uno sguardo disincarnato. Un’istanza che si muove nello spazio scenico. Per questo può coincidere narrativamente con l’intero film. Non si tratta di una novità assoluta, certo. Da La casa di Raimi in avanti, il punto di vista dell’elemento soprannaturale è cosa nota. Ma Presence compie una curvatura concettuale che sposta l’asse dal complesso narrativo al metafilmico. Non funziona come horror, perché troppo intellettiva la scelta del racconto per generare quell’identificazione necessaria a supportare i criteri cui solitamente si punta: la fonte stessa dell’inquietudine non arriva dall’esterno, dalle minacce possibili caratteristiche del genere, ma proprio dalle immagini che raccontano il film. Dalla loro incombenza.

Seguendo un semplice sillogismo, se lo sguardo inquietante coincide con la regia, è quindi il cinema a costituire la vera presenza disturbante: l’immagine, perso il suo carattere, diventa pura emanazione di stile, un flusso visivo che smette di rappresentare e comincia a essere. La presenza non è più l’altro del visibile, ma il visibile stesso, nella sua opacità teoretica, resa ancora più straniante dall’uso dell’iPhone, che restituisce un’immagine obliqua, allungata, soprattutto nelle fasi di movimento. Presence è forse il momento in cui Soderbergh spinge maggiormente la sua autocoscienza stilistica, puntando senza remore né timori verso l’assoluto, come ammette piuttosto esplicitamente facendo affermare alla medium chiamata per scoprire la natura dell’ectoplasma che nel varco aperto grazie alla “presenza” si sperimenta l’esistenza stessa di Dio – e quindi, trasposto sul piano della creazione artistica, l’onniscienza narrativa. Lo spettro soggiacente è l’autore, un autore che coincide con lo stesso dispositivo utilizzato, un punto di vista senza corpo, che si insinua tra i personaggi, senza mai farsi vedere, ogni tanto addirittura intervenendo nell’azione (facendo confusione per evitare un pericolo incombente – da leggere come un caso particolare di metalessi) e lasciando ovunque le tracce della sua esistenza.

In quest’ottica, Presence fa dichiaratamente parte di una tendenza recente che esplora la crisi della soggettività nel cinema contemporaneo. Lavori che si interrogano su cosa significhi vedere attraverso un’immagine oppure che valore abbia assumere un punto di vista ambiguo, in qualche modo manipolabile, laddove soggettività e illusione di obiettività entrino in un cortocircuito. Se Nickel Boys è una trappola estetica perché il pubblico condivide lo sguardo dei due personaggi ma non le reazioni e le passioni che ne scaturiscono, rendendo il lavoro di RaMell Ross più un interessante esempio di videoarte che un impianto emotivo, Here di Zemeckis, con la sua precisa scelta prospettica, fa sì che lo stesso genius loci di una casa diventi struttura narrativa, in modo che lo spazio osservi se stesso diventare tempo. In modo non del tutto dissimile, anche se giungendo da tutt’altro versante, nello slasher In a Violent Nature di Chris Nash, la coincidenza con il punto di vista del mostro assassino (neanche questa una novità, da Peeping Tom a Halloween, passando per Black Christmas, anche se in Nash è in modalità over the shoulder) si declina in una condivisione del tempo impiegato per compiere i massacri, più che dello sguardo. Sguardo di cui è ribadita la sua fallacia, quando non addirittura l’impotenza, come mostra Alex Garland in Warfare (in uscita a fine agosto), nel quale il controllo militare dall’alto di una zona mercatale irachena non scongiura l’ipotesi di essere colti alla sprovvista. O come dimostra, in modo ancora più inquietante – perché caso di cronaca – il documentario di Bill Morrison Incident, in cui l’accumulazione di prospettive (bodycam, telecamere di sorveglianza, smartphone di testimoni) smonta l’illusione di una verità possibile su un caso di uso eccessivo della forza da parte del dipartimento di polizia di Chicago avvenuto nel 2018 per essere strumentalizzato dal potere istituzionale.

È solo una tendenza, ma lo sguardo diventa residuo, sopravvive alla sparizione del corpo ma non ne dà ragione, né giustificazione, rendendo più acuta la crisi del soggetto, sempre più smarrito, privo di identificazione e partecipazione. Presence, più degli altri, costruendo la sua tensione su un’assenza, non fa altro che dirci che il fantasma è il cinema, ma che pur disancorata dallo sguardo, l’immagine persiste, più forte che mai. Fa solo parte di un’altra natura.


 

Presence
Stati Uniti, 2024, 85'
Titolo originale:
id.
Regia:
Steven Soderbergh
Sceneggiatura:
David Koepp
Fotografia:
Steven Soderbergh
Montaggio:
Steven Soderbergh
Musica:
Zack Ryan
Cast:
Lucy Liu, Julia Fox, Chris Sullivan, West Mulholland, Callina Liang, Lucas Papaelias, Eddy Maday, Natalie Woolams-Torres
Produzione:
Extension 765, The Spectral Spirit Company
Distribuzione:
Lucky Red

La famiglia Payne sembra una famiglia perfetta. Quando la vita della figlia minore Chloe viene sconvolta da un tragico evento, scelgono di trasferirsi in una nuova casa, fuori città, per ripartire da zero. Presto però la ragazza si accorge di qualcosa che non va nella sua camera; inizialmente la famiglia non le crede, ma cambierà idea quando le manifestazioni diventeranno impossibili da ignorare. Mentre la loro realtà quotidiana inizia a sgretolarsi e le tensioni si amplificano, una presenza inquietante li osserva e li influenza, silenziosa ma sempre più vicina.

poster


TRAILER