L'oro del Reno di Lorenzo Pullega

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È uno strano oggetto filmico L’oro del Reno, esordio al lungometraggio di Lorenzo Pullega, prodotto da Pier Giorgio Bellocchio e dai Manetti, passato all’IFFR e al Bif&st, dove ha vinto il premio per la regia nel concorso per il cinema italiano, con Neri Marcorè (voce narrante) nei panni del regista. L’idea è infatti quella, metacinematografica, di un filmmaker che sia invitato dal presidente di un fantomatico Consorzio dei tritoni renani a girare un film, anzi un documentario, sul fiume Reno, quello italiano che dall’Appennino tosco-emiliano sfocia presso Casal Borsetti, sotto Comacchio, fiume già documentato dal film di un tale Bonito Benuzzi, che «spopolava nella didattica scolastica». Si tratta, insomma, di aggiornare quest’opera ormai obsoleta ma il nostro regista è perplesso, non sa cosa potrà venirne fuori, si chiede se sia meglio concentrarsi sul fiume, sulle persone che lo popolano o sul rapporto tra passato e presente nelle storie che il corso d’acqua porta con sé, ma poi decide che ok, ci proverà, e «vediamo che succede. Qualcosa ne verrà fuori». Per cui ecco, si comincia e lo si fa dall’elemento più eclatante, l’omonimia delle acque tosco – emiliano - romagnole con quelle tedesche, il Reno musicato da Wagner nel ciclo dei Nibelunghi, dal cui prologo il film prende il nome; prendendo spunto dal fatto che, dice l’autore, nel 1985 dei melomani giapponesi hanno scambiato il Reno italiano per quello tedesco, e il film ce li mostra solcare le sue acque in costume nibelungico brandendo un mangiacassette che diffonde nell’aria le melodie wagneriane. La prima inquadratura è quella degli occhi di uno di questi uomini; a indicare che vediamo, vedremo qualcosa di speciale e lo vedremo con gli occhi del regista del film “da fare”, quindi lo vedremo farsi insieme a lui, condividendo entusiasmi e dubbi e lasciandoci appunto cullare da quello che il fiume (e l’impresa) porta. Storie, leggende, aneddoti, persone.

Per cui abbiamo il “popolo del sole” con il suo capo Lollo, sempre fermo su una sdraio, che «non si annoia» passando il tempo a bordo fiume perché, lì, «succede di tutto» (era l’idea di partenza di Pullega raccontare la storia di questo gruppo di persone, tra le quali c’è Eva Robin’s); i “bambini del Reno”, morti nel 1968 inghiottiti da un gorgo, che sembrano riapparire sotto forma di spettri, rievocando i fantasmi de Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti; il battesimo di gruppo celebrato da un sacerdote nero; la fontana di Ontani intitolata al fiume (RenVergatellAppenninMontovolo, 2019), posta davanti alla stazione di Vergato; ma anche l’alluvione del 1823 (di un affluente del Reno) che ha distrutto il borgo di Durazzo, lasciandone indenne solo il campanile, ristrutturato nel 1992 (e qui la vicenda è quella di una futura sposa, che sembra quella del film di Fiorella Infascelli, che viaggia con la sorellina su un letto matrimoniale galleggiante, con la valigia del corredo gelosamente custodita, per raggiungere a Durazzo il suo promesso, non volendo credere che il paese non c’è più); Porretta Terme con una contessa che racconta dell’ultima persona che ha visitato gli stabilimenti oggi in disuso, «un commesso viaggiatore», in una lunga parentesi tra il felliniano e il sorrentiniano; i sotterranei di Bologna, «sotto il Nettuno», con un Virgilio che guida il regista portandolo «dalla santa», nella realtà Santa Caterina de’ Vigri (Caterina da Bologna), vissuta nel XV secolo e considerata l’«altra» patrona della città, il cui corpo mummificato si trova nel monastero del Corpus Domini; e, nel finale tra la vegetazione e le nebbie, nelle Valli di Comacchio, il ritrovamento di un corpo sulla spiaggia, alla foce del fiume, cercato da un gruppo rocambolesco di persone tra cui i figli (lei, con l’abito rosso come la camicia di lui, si chiama Anita e non vuole pensare male del papà, donnaiolo e mentitore) ed il sindaco del paese, che pensa solo a mangiare, sottile riferimento a un’Italia che non è certo quella auspicata dai garibaldini. Nebbie molto antonioniane, tono e situazione per certi versi, ancora, felliniani. Anche nel «segreto» che l’uomo nasconde, una vena d’oro chiusa strettamente nel pugno, di cui un giovane di passaggio si impossessa.

E veniamo allora anche noi, dopo questo excursus che è a tutti gli effetti un percorso (dentro al film), a toccare il punto e a rispondere alla domanda iniziale, chiudendo il cerchio. Che film è questo, qual è il genere in cui può rientrare? Sicuramente un finto documentario, anche se molti degli episodi narrati sono veri, e veri sono i riferimenti storici ad essi sottesi (ascoltiamo anche, tra l’altro, il coro delle mondine di Bentivoglio); una commedia, perché l’ironia è il filo conduttore dell’intera opera, anche nei momenti tragici come quello finale, che ci parla del mistero della vita e del confine tra vero e falso, e tra realtà e finzione; un thriller e un horror in alcuni momenti (la sequenza dei “bambini del Reno”, l’immagine orrorifica e sorrentiniana del corpo incorrotto della “santa”), ma anche una fiaba; una narrazione a scatole cinesi, di racconto in racconto, come gli illustri esempi letterari; un flusso di coscienza sconclusionato ma affascinante; e cinema nel cinema. Ironico, si diceva, ma anche nostalgico e struggente, a tratti onirico, un omaggio del regista (quello vero) alla propria terra condito dal rimpianto per un mondo, quello della seconda metà del secolo scorso, che oggi non esiste più. E anche un omaggio al cinema, dei registi emiliano-romagnoli ma non solo. Gabriella Ferri, con Sempre, chiude in bellezza questo viaggio.