Gigi Miracol – Ritratto di un uomo libero

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RANDOM è una nuova rubrica che darà spazio a film di finzione, documentari, medi o cortometraggi, ufo audiovisivi di soggetto e provenienza vari, accomunati da circolazione avventurosa e conseguente consumo di nicchia e saltuaria attenzione critica.

 

È un piccolo grande film, il documentario di Dimitri Feltrin (prodotto da Zeta Group) su Luigi Antonioli, in arte Gigi Miracol, che si intitola Gigi Miracol – Ritratto di un uomo libero. Perché la libertà, unita al gioco, talvolta malinconico, e alla sete (dionisiaca) di vita, che non esclude la consapevolezza della nostra mortalità di uomini, è il tratto caratterizzante di questo “vignaiolo itinerante”, classe 1953, originario del vittoriese, saltimbanco, giocoliere, mangiafuoco in quel di Venezia e in altre parti dell’Italia ma anche giardiniere, viticoltore e produttore di vino, nonché consulente enologo per “bàcari” e vinificatori. Viveur, festaiolo. E poeta. Da quando, alla morte del padre, ha sentito il bisogno di scrivere, rigorosamente nel dialetto della sua terra. Uno spirito libero insomma, che vive nel suo camper dal momento in cui (nel 1997) un incendio gli ha distrutto la casa e le vigne lasciando intatto solo il furgone con gli attrezzi della giocoleria, furgone a quel punto sostituito dal camper con cui viaggia o, nei momenti di riposo, sta accampato sulle colline sopra a Fregona ad ammirare la valle sottostante e a passeggiare nel bosco, alla ricerca di “ciodèti” (in autunno) o di erbe per la zuppa e l’insalata (“sciopèti”, germogli del rovo, luppolo e ortiche), quando non di “qualche animaletto”. Riposo dalle mille attività che però, attenzione, non sono lavoro: in una scena dice di aver letto la definizione di “lavoro” nella Treccani e di essere rimasto scioccato, benedicendo (laicamente) il momento in cui ha lasciato l’azienda agricola che aveva messo in piedi, complice anche l’incendio di cui sopra, e il tipo di vita che questa rappresentava. L’austerità è il suo pane, in questo nomadismo esistenziale; l’unico vezzo, si intuisce, è quello dei cappelli, colorati, strambi, che gli incorniciano il volto scarno e non più giovane, come spesso ha occasione di osservare. Un modo di vivere diverso, anzi una scelta di vita, diversa, nell’apertura a ciò che accade di momento in momento; con le conseguenti rinunce, come quella a eventuali figli e, soprattutto, a una donna, perché lo porterebbe a “scendere dal camper” mentre lui, sul camper, vuole restare. Su quelle strade, in quella natura; su quella terra. Con le persone che lo capiscono e che in qualche modo gli sono vicine, come mostra la festa di compleanno dell’ultimo capitolo.

L’opera è infatti divisa in quattro capitoli che, a partire dall’inverno, corrispondono alle stagioni; inizia nel dinamismo che accompagna i titoli di testa (Gigi è a Venezia e intrattiene i bambini dei campi con grandi bolle di sapone e la camera lo segue per le calli, muovendosi con lui), passa per momenti di calma, torna alla frenesia, anche solo verbale, delle scene conviviali (le sagre, le feste, le fiere enologiche) per poi ritornare ai dialoghi sussurrati del protagonista con gli amici o ai monologhi che fa sulle questioni esistenziali, vita e morte e lo scorrere del tempo, ricordando i genitori che si sono tanto amati e toccando qualche piccolo rimpianto per concludere, però, con l’idea di aver vissuto bene, di aver vissuto una vita felice. Di aver avuto fortuna. Il regista, dicevamo, rende perfettamente l’alternarsi di questi momenti, curando in particolare la fotografia (di Alen Basic) e le tecniche di ripresa, date da ampie panoramiche aeree ma anche dall’indugiare su dettagli naturali, oltre che montaggio (di Jurij Magoga) e musiche (di Walter Bertolo) perché sì, la musica in questa storia ha il suo bel peso, che avvertiamo in particolare nelle scene in cui suonano i Do’Storieski: la vita, una vita vissuta in questo modo è per forza musicale, e si coniuga al presente; come spesso Gigi ricorda agli spettatori. La scena finale, con le castagne messe ad abbrustolire sul fuoco, all’aperto, e il crepuscolo che arriva, non può chiudere più degnamente questo ritratto di un uomo orgogliosamente fuori dagli schemi.