Ewa - The Last Lesson di Andrea Mura e Federico Savonitto

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Nata a Lublino nel 1943, Ewa Benesz compie studi letterari prima di dedicarsi alla sua vera passione, il teatro, frequentando l'Accademia d'Arte Drammatica di Varsavia e lavorando, dal 1966, con Jerzy Grotowski nel Teatro Laboratorio di Breslavia e, successivamente, con Peter Brook. Costretta a lasciare la Polonia dopo il colpo di stato di Jaruzelski del 1981, approda nel 1983 in Italia, precisamente in Sardegna, a Castiadas, ai piedi del Monte Porceddus, dove realizza il sogno di una vita “povera”, senza elettricità e senz’agi, e dove porta avanti progetti e laboratori di parateatro; una forma di teatro in cui, sulla scia di Grotowski, si mira all’essenziale e si lavora quindi senza scenografie né orpelli, solo con e sul corpo (e sulla voce) degli attori, in stretta relazione con il pubblico e creando, attraverso le performances, uno spazio “sacro” in cui ci si possa reciprocamente mettere a nudo. Teatro che diventa, quindi, esperienza autentica, vissuta e necessaria. Andrea Mura e Federico Savonitto hanno avuto occasione di conoscere Benesz e di frequentare i suoi laboratori nel corso di una quindicina d’anni e hanno così deciso, nel momento del suo ritorno in Polonia, ormai ottantenne, di farne un ritratto il più possibile intimo e sincero; nasce così questo Ewa - The Last Lesson, appena passato al Biografilm di Bologna, un documentario che nella sua brevità rispecchia la ricerca di essenzialità, e di verità, che l’attrice ha sempre portato avanti, con il teatro (inteso come “sentiero” per la conoscenza di sé) ma anche con i miti antichi, la spiritualità orientale, i ritmi africani, le tradizioni sciamaniche e gli insegnamenti di Gurdjeff. E le letture, e la scrittura (negli ultimi anni, delle sue memorie) e l’imparare e il recitare a memoria un testo, il Pan Tadeusz di Adam Mickiewicz (1834, l’opera per eccellenza dell’epica polacca in versi), che si vedrà messo in scena, a fine film, nel teatro dell’opera di Lublino. 

La vediamo, nel documentario, in vari luoghi e situazioni, a Palermo, a Napoli e in Umbria e, nel prologo, a Brzezinka, all’Istituto Grotowski, a tenere seminari o a incontrare persone; ma soprattutto la vediamo in Sardegna, con i suoi allievi attori e con le persone che la vengono a visitare (gli attori Blanche Tirtaux, Cenzo Atzeni e Amanda Silva Gomez, la ricercatrice musicale Barbara Crescimanno, l’attore e curandero José Damian Soriano, lo scrittore e psichiatra François Emmanuel, oltre all’attore e assistente Vincenzo Pennella e alle professioniste che la aiutano con il libro), anche per lavorare con lei. Il teatro, così inteso, è per lei innanzitutto ricerca spirituale, e in questo (nel lavoro, nella poesia) lei dice di trovare l’amore, in una connessione profonda con se stessa, con le persone che la circondano e anche con i luoghi, con la terra che la sostiene e gli alberi che la proteggono; per questo, probabilmente, ha voluto che i registi seguissero i suoi laboratori anche durante le riprese del film (il montaggio è stato poi curato da Nicolò Tettamanti e Jacopo Quadri, quest’ultimo tra l’altro autore di una serie di ritratti dedicati ai grandi del teatro).

L’approccio, si diceva, dei due registi è discreto: non impongono, ma seguono; non fanno interviste, ma lasciano parlare e ascoltano, e riportano; non fanno vedere tutto (di una vita complessa come quella di Benesz, che fonde natura e cultura e che al lato viscerale, intimo, emozionale accosta quello intellettuale, di rielaborazione e scrittura) ma scelgono un percorso, una prospettiva. Quella che maggiormente rende l’idea di chi sia Ewa Benesz, senza troppe spiegazioni ma mostrandola in azione, nel presente come nel passato. Con una confezione che è elegante senza essere per questo troppo raffinata, in linea con quel senso di complessità, che vuole e che sa essere semplicità, che è il tratto distintivo di quest’artista.