La parola controversa degli ultimi mesi è stata “genocidio”, con un’applicazione geopolitica contemporanea ancora sotto gli occhi di tutti, almeno finché reggeranno i riflettori. Ma che forse andrebbe rimuginata e connessa a quello socio-culturale di base a tempo indeterminato; oggi più che mai operativo da quel dì, ovvero dal delitto di Pier Paolo Pasolini cinquant’anni fa e dall’intervento milanese dell’estate del 1974, poi trascritto su «Rinascita» e infine pubblicato negli Scritti corsari come Il genocidio. Un genocidio chiama l’altro e la morte violenta di un poeta quella di popolazioni intere.
Un intellettuale vero, scrittore, poeta e regista, che non recitò la sua parte in commedia come quelli attuali, in Palestina avrebbe voluto inizialmente girare Il vangelo secondo Matteo; intento di cui resta traccia in Sopralluoghi in Palestina, a proposito di un film di sessant’anni fa esatti, che segna quindi un doppio anniversario assieme a quello della morte avvenuta nella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975, capitolo centrale della più ampia “Notte della Repubblica” italiana che stenta ancora a ritrovare la luce del giorno. Il groviglio di misteri, quindi dei compendi dei maggiori compendi di allora, Salò e le 120 giornate di Sodoma e gli Scritti corsari, nel corso dei decenni ha trasformato questo lutto terribile nell’ennesimo giallo nazionale dai contorni paradigmatici anche in considerazione della notevole quantità di circostanze comuni a numerosi altri episodi oscuri di attentati e stragi, cadaveri e delitti eccellenti che hanno funestato l’Italia post-bellica.
Pasolini era e come “cadavere lunghissimo” rimane un testimone del suo, quindi nostro tempo. A lui è toccata l’opzione estrema della sorte, per aver avuto piena coscienza, contezza e prefigurazione dell’impatto di lunga durata del trasversale e capillare genocidio in atto. Alberto Moravia al funerale: «Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. […] Ora io dico: quest’immagine che mi perseguita, di Pasolini che fugge a piedi, è inseguito da qualche cosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso, è un’immagine emblematica di questo Paese». E accanto a Moravia Francesco Rosi, silenzioso e turbato mentre intreccia assorto il caso Pasolini alle piste de Il caso Mattei (1972), quindi il delitto misterioso atrocemente contrassegnato dalla violenza al delitto scoperto del potere e del petrolio di Stato a livello planetario. Nell’ombra la morte di Enrico Mattei e quella di Pier Paolo Pasolini si danno quindi appuntamento sulle pagine presenti e soprattutto mancanti del romanzo incompiuto Petrolio, fitto di pagine indizianti e di caselle mancanti, nella migliore tradizione dei misteri d’Italia puntellati tutti da oggetti che scompaiono, memoriali, borse, agendine, o corpi che si disintegrano in cielo, svaniscono nel nulla o restano devastati sul terreno del genocidio condiviso, morale e antropologico, etnico e linguistico.
Pasolini nell’altro emblematico, terminale articolo a chiave, Che cos’è questo golpe?, ripubblicato come Il romanzo delle stragi negli Scritti corsari, con il suo punto di domanda anaforico «Io so…», del resto aveva siglato l’assunto di un giallo di Agatha Christie del 1938, neanche a dirlo: Appointment with Death, affidato ad Hercule Poirot, secondo cui: «Occorre intenderci con chiarezza, però. Quello che voi chiedete, e che io m’impegno a darvi, è la verità. Ma notate bene: può darsi che quando avremo scoperto la verità, ci troveremo senza “prove”, almeno, che un tribunale possa accettare per buone. Capite?»