Faceva impressione Paolo Bonacelli, specialmente sullo schermo: uno schermo oscuro e ammonitore del o dal passato, popolato da fantasmi nefasti e pronto a prefigurare, se possibile, tempi peggiori di là da venire. Entrava e usciva in punta più o meno di piedi da uno schermo di necessità e ad arte respingente, inseparabile nel suo caso e con la sua preparazione dal retroterra teatrale. È dunque possibile, a consuntivo e con cognizione di causa, rileggere trasversalmente molti dei ruoli che ha abbracciato con surreale, sulfureo distacco e generosa, irridente metodologia straniante: quelli, va da sé, più connotativi rivestiti in Salò o le 120 giornate di Sodoma, L’eredità Ferramonti, Buone notizie, Cristo si è fermato a Eboli, Enrico IV, Mamma Ebe, che stanno lì, di concerto, a testimoniarne la grandezza. Con Pasolini, Bolognini, Petri, Rosi, Bellocchio, Lizzani e non solo faceva quindi impressione, molta impressione Bonacelli, spalancando le porte a personaggi ignobili ma, peggio ancora, comuni: eccellenti allorché ordinari nella loro potente e corrente mediocrità.
Figure, più o meno di contorno, le incarnava volentieri, complice un aspetto e una fisicità già segnale inconfondibile dell’anima dannata di un intero contesto; nella totalizzante metà campo negativa della società, le coglieva strette tutte in una penombra consimile alla composizione che albergava nei dipinti di Mario Sironi: all’indice ne risultava l’espressione singolare e perciò corale di una sorniona, sordida o garbata normalità, assoggettante poiché assoggettata e di spicco, privilegiata in quanto maggioritaria e omologata al vertice della piramide oscena, preferibilmente di regime. Nell’ordine categorico e nella galleria di maschere nude di Bonacelli la modestia intellettuale del potere rientrava a latere di un discorso presupponendone la centralità, dentro e fuori il perimetro fragile che separa la dittatura dalla democrazia.
A lui non restava che completare il puzzle tremendo: rappresentare e reiterare in ogni circostanza, come emblema istituzionale o specchio di lunga durata, la riflessione accusatoria sulla moltitudine crescente di esseri immondi, concepiti davanti e dietro la macchina da presa o sul palcoscenico a immagine e somiglianza di una collettività irrimediabilmente compromessa. L’intuizione speciale da attore/personaggio al servizio di un cinema e di un teatro d’autore e di regia, di cui oggi si è smarrita ogni traccia, complice l’attuazione delle peggiori anche sue previsioni trascorse, dirette o indirette, comportava una presenza discreta ma inequivocabile: “con” Paolo Bonacelli”, si leggeva nei titoli di testa o di coda, oppure, in aggiunta inquietante, all’occorrenza: “… e con Paolo Bonacelli”. Ma la sostanza restava immutata: quella di Enrico IV dove gli toccava di diritto la parte di Belcredi, in coppia coniugale verso il protagonista impazzito con una donna non meno sleale, amata, contesa e vinta, che per pirandelliana ironia della sorte a interpretarla era la compianta Claudia Cardinale, precedendo Bonacelli di pochi giorni nel trapasso.
Il suo giro di vite rimane Cristo si è fermato a Eboli: la controparte dei Contadini, quella riservata per demerito ai Luigini, gli vale qui il ritratto memorabile del capostipite della casta. Del podestà profondamente fascista, provinciale e burocratico, accomodante e opportunista Don Luigino, la progenie, in vertiginosa crescita attuale, Carlo Levi l’aveva per tempo descritto nel brano de L’orologio recepito prontamente da Rosi nel film: «E i Luigini, chi sono? Sono gli altri. La grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia, con tutte le sue specie, sottospecie e varianti, con tutte le sue miserie, i suoi complessi d’inferiorità, i suoi moralismi e immoralismi, e ambizioni sbagliate, e idolatriche paure. Sono quelli che dipendono e comandano; e amano e odiano le gerarchie, e servono e imperano. Sono la folla dei burocrati, degli statali, dei bancari, degli impiegati di concetto, dei militari, dei magistrati, degli avvocati, dei poliziotti, dei laureati, dei procaccianti, degli studenti, dei parassiti. Ecco i Luigini. […] I Luigini hanno il numero, hanno lo Stato, la Chiesa, i Partiti, il linguaggio politico, l’esercito, la Giustizia e le parole».