Cédric Klapisch, produttore e sceneggiatore oltre che regista e anche, tra l’altro, fotografo, fa da sempre un cinema raffinato ma al contempo popolare, che giostrandosi tra commedia e dramma, trattando quindi temi psicologicamente e sociologicamente complessi in modo semplice e arioso, riesce a far sorridere gli spettatori e a rivolgersi tanto al pubblico d’essai quanto a un pubblico più ampio; com’è accaduto per il film che l’ha fatto conoscere a livello internazionale, L’appartamento spagnolo (2002). La sua formazione è composita (studi di cinema a New York oltre che in Francia, a Paris-Sorbonne e a Vincennes-Saint-Denis) e i suoi film, interpretati da attori che rappresentano, di volta in volta, il meglio del cinema francese di quel momento, mettono i personaggi, con le loro problematiche sentimentali, al centro di un contesto (storico, sociale, culturale) più ampio, spesso e volentieri parigino. Con un occhio di riguardo all’arte, che sia la danza come nel penultimo film (ma non solo), la pittura o la fotografia. O il cinema, ça va sans dire.
È quello che accade anche in quest’ultimo film, I colori del tempo (in originale La venue de l’avenir), costruito (come l’alleniano Midnight in Paris) su un montaggio parallelo tra il tempo presente, in cui quattro lontani cugini, discendenti dei tre rami della famiglia di Adèle Meunier, morta nel 1944 forse nel bombardamento di Le Havre, sono chiamati a occuparsi della casa, piena di reliquie del passato, in cui è vissuta l’antenata, che una multinazionale vuole comperare per realizzarci il parcheggio (rigorosamente ecologico) di un ennesimo, grande centro commerciale, e il tempo passato, precisamente il 1895 (con passaggi nei primi anni ’70), il momento in cui Adèle, dalla campagna normanna, si reca a Parigi in cerca della madre che l’aveva affidata alla nonna, ora defunta, quando era piccolissima. Lei a casa ha un ragazzo che la ama ma sente che a Parigi ha delle cose da fare e da scoprire, e si mette in viaggio. Lungo la strada incontra due coetanei, un pittore e un fotografo, che ammirano con lei, dal battello che corre sulla Senna, la rive gauche e la recentissima Tour Eiffel, sgranando gli occhi come quando, più tardi, guarderanno dalla terrazza di Montmartre il viale dell’Opéra, e l’Opéra stessa, illuminati dalla luce elettrica, il giorno prima di recarsi in quel quartiere a vedere le “immagini in movimento” dei Lumière.

Ma se adesso ci siamo soffermati sui prodigi della scienza e della tecnica e quindi sullo spirito positivista che animava la Belle Époque, un altro aspetto del XIX secolo, anzi della fin de siècle, evidenziato riguarda l’arte, perché Adèle sta con gli amici a Montmartre, sopra al Rat Mort (locale realmente esistito, ma raffigurato qui come se fosse Le Chat Noir; e tutta “finta”, palesemente ricostruita e cartolinesca, è nel film la Parigi del tempo, un invito a considerare il carattere di finzione dell’arte e del cinema in primis), e la sua storia familiare la porta a incontrare artisti come Claude Monet e Félix Nadar, sempre per stare tra pittura e fotografia, con un’apparizione di Sarah Bernhardt.
Artisti che avranno un ruolo anche nella storia ambientata nel tempo presente, che si apre con un servizio di moda davanti alle Ninfee di Monet all’Orangerie (ambientazione che si ripete, uguale ma diversa, nel finale) e che si chiude con la consapevolezza di aver ereditato un quadro dal valore inestimabile, uno schizzo dal valore analogo e due fotografie d’epoca altrettanto importanti, ma con consapevolezze anche diverse: in particolare per Seb, il vero protagonista di questa parte, quella dell’importanza, ogni tanto, di “guardare indietro” quando si tenderebbe piuttosto a guardare avanti, e per Céline quella della necessità di “rallentare”, e di “lasciar andare” per trovare qualcosa che vada meglio per sé, autenticamente. Perché il sé autentico non è quello che corre o che si affanna o che sta continuamente nell’ansia della prestazione, ma quello che può anche, se c’è la persona giusta vicino, ridere e sorridere della vita, delle sue contraddizioni come della bellezza che può portare, inaspettatamente, se ci si apre ad accoglierla. Come a dire: andare nel passato, riscoprire il proprio passato e le proprie origini anche familiari, senza escludere la possibilità di aprirsi agli incontri inaspettati e ai nuovi accadimenti, aiuta a vivere bene il futuro e, ancora prima, questo presente magari non esaltante (la società dei consumi, gli strumenti tecnologici, la velocità dei nostri tempi vengono qui osservati in chiave critica), ma che è pur sempre quello con cui dobbiamo confrontarci.
Messaggi semplici, quindi; per un film che non ha guizzi di originalità cinefila (a Cannes è passato fuori concorso), ma che conquista proprio per questa semplicità che, a livello cinematografico, si evidenzia nella buona fattura, nella sceneggiatura forte e nell’ottimo cast, fatto di attori giovani (lo splendido Abraham Wapler, Paul Kircher, Vassili Schneider e la brava Suzanne Lindon, figlia di Vicent Lindon e Sandrine Kiberlain) e meno giovani (il sempre meraviglioso Vincent Macaigne, Julia Piaton, Zinedine Soualem, Cécile De France e, in una piccola ma grande parte, Olivier Gourmet), come nei film precedenti del regista.
Nella Francia di oggi un gruppo di sconosciuti viene convocato per discutere una misteriosa eredità: sono infatti tutti discendenti da un’unica donna, Adèle Meunier, che alla fine dell’Ottocento aveva lasciato la Normandia per cercare la madre a Parigi. Frugando tra vecchie foto, lettere e dipinti, quattro degli eredi riescono a ricostruire gli amori e le incredibili vicende della loro antenata, vissuta nel cuore della Belle Époque e della trionfale stagione dell’Impressionismo.