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Pippo Delbono (Varazze, 1959) è una delle figure chiave del teatro contemporaneo. Cresciuto frequentando e assorbendo le esperienze e le suggestioni del più essenziale ed elevato spettacolo internazionale (dall'Odin Teatre a Pina Bausch, per citare due totem del nuovo teatro), ha sviluppato una sua forma intensa e vivace di rappresentazione, tra performances e regie ecclettiche, teatro e cinema. Come dice la motivazione del premio Europa Realtà Teatrali a Breslavia assegnatagli nel 2009: “Poeta della marginalità e della differenza, Pippo Delbono da sempre fa dell’incontro con l’arte un’esperienza fondamentale per sopravvivere alla disperazione ”.

Ad accompagnarlo nel suo viaggio rivolto a “portare il pubblico a un viaggio rituale” (parole sue, da un'intervista Rai) per 22 anni v'è stata anche la straordinaria figura di Bobò (nome d'arte di Vincenzo Cannavacciuolo, morto ad Aversa a 82 anni), per 45 anni vissuto senza mai uscire dal manicomio di Aversa e da lui praticamente liberato, “da uno spazio di costrizione del manicomio sino a uno spazio di libertà e follia” sulle scene.

Bobò è sordomuto, microcefalo, analfabeta (non conosce neanche il linguaggio codificato dei muti), si esprime solo con piccole grida da gabbiano, e questo documentario dal titolo omonimo, presentato prima a Locarno fuori concorso e ora al Torino Film Festival gli rende omaggio, raccontando del rapporto di affetto “quasi filiale” tra le due persone, arricchendole spiritualmente. Perché se uno libera l'altro, l'altro libera il primo, affrancandolo da una forma di depressione, da una “tristezza sempre più nera, sempre più buia”, come Delbono racconta sul palco di un periodo della propria vita, ingabbiato in un angusto parallelepipedo di sbarre.

Ma, a dispetto dei sospetti di primo acchito, Bobò non è un classico “caso umano” che spreme il nostro cuore di facile commozione. Conosciuto durante un seminario in manicomio nel 1995, l'autore intuisce che quella figura di “destinato a essere per sempre un bambino dentro” possedeva anche la sensibilità e l'espressività “costretta” di un grande artista. E lo vediamo in questo omaggio, in varie opere negli anni tra cui quello straordinario Barboni, in cui accanto a Delbono, lavorando su improvvisazioni, padroneggia situazioni beckettiane con una consapevolezza e un senso unico mirabile e coinvolgente.

Davvero basterebbe osservare la grazia e la musicalità dei suoi gesti, una dote sua quasi innata, per rendersi conto di un valore assoluto e non condizionato del suo essere artista. Riusciva ad esempio a muoversi ai ritmi della musica con un senso del tempo quasi da danzatore professionale. Lui sordomuto, come ricorda Delbono, “percepisce la musica, come se la sentisse dallo stomaco”.

Un documentario intenso e appassionante, costruito con materiali d'archivio lungo 20 anni di collaborazione (300 ore di repertorio), con musiche originali di Enzo Avitabile, fotografia di Cesare Accetta, montaggio di Marco Spoletini. Un sublime manifesto della più elevata Arte dell'Umano, se si può dire così.

Questo film l'ho fatto per lui, per farlo conoscere al mondo e dargli quello che si merita. Un gesto d'amore per custodirne la luce” (dichiarazione di Delbono ad Anna Bandettini, su la Repubblica).

In queste settimane il film, distribuito da Luce Cinecittà, girerà per l'Italia presentato dall'autore. Regalerebbe un'esperienza importante esservi presenti.