Kei Pritsker, Michael T Workman

The Encampments

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«Perché pensi che questi accampamenti provochino una risposta così intensa da alcune delle persone più potenti del mondo?». Si apre con questa domanda a Sueda Polat, una delle studentesse che hanno animato gli accampamenti di solidarietà con Gaza dell’aprile 2024 alla Columbia University di New York, il pregevole The Encampments, documentario di Michael T. Workman e Kei Pritsker che racconta, appunto, i dodici giorni dell’occupazione del campus universitario più importante d’America, che ne ha poi coinvolti una sessantina d’altri negli Stati Uniti, tra cui l’UCLA, e trecento nel mondo, proseguendo una tradizione che ha avuto, in passato, il suo apice nelle proteste studentesche dell’aprile ’68, sempre alla Columbia, contro la guerra del Vietnam (e il reclutamento effettuato, da un certo punto in poi, all’interno del campus) e contro l’espansione incontrollata dell’area universitaria, a discapito degli abitanti del quartiere di Harlem; ma anche contro i rapporti tra università e politica, in termini di investimenti per scopi bellici. Protesta ben delineata in 4321 di Paul Auster, nella storia di uno dei quattro Archie Ferguson protagonisti.

La contestazione raccontata nel nostro documentario, che dal CPH:DOX di Copenhagen, dove ha vinto, a marzo, una menzione speciale assegnatagli dalla giuria del premio Human:Rights, e dopo una breve uscita newyorkese, è stato evento speciale al Biografilm di Bologna e sta arrivando ora al Torino Film Festival, è appunto quella degli accampamenti per Gaza, al motto di “Denuncia, disinvesti” (rivolto all’amministrazione dell’università newyorkese, accusata di contribuire al finanziamento dell’industria bellica statunitense e israeliana) relativamente ai seguenti punti: “financial divestment, academic boycott, stop the displacement, no policing on campus” e, soprattutto, “end the silence” su quanto stava accadendo allora, e ancora accade, a Gaza.

«Dovevamo fare qualcosa», affermano i manifestanti; qualcosa che non potesse essere ignorato dall’amministrazione dell’università. La quale infatti, nei giorni degli accampamenti che sono, nel film, mostrati uno per uno, propone due accordi di mediazione che per gli studenti sono inaccettabili, tanto che il campus, nel quale la Polizia era già entrata il secondo giorno effettuando una prima serie di arresti, viene al dodicesimo fatto sgomberare con la forza, a New York come a Los Angeles e in altre sedi universitarie degli States, dopo che era intervenuto il sindaco per dire, con il capo della Polizia di New York, che quell’occupazione doveva finire al più presto. Sgombero che ha portato a 3.100 arresti di studenti e docenti, all’espulsione di uno degli attivisti che vediamo anche nel film, Grant Miner, e di altre ventidue persone (sospese dalla frequenza, espulse dall’ateneo o private del titolo di laurea già conseguito) e, soprattutto, all’arresto del principale tra gli attivisti newyorkesi, Mahmoud Khalil, che è stato poi in carcere per più di cento giorni per motivi pretestuosi legati all’immigrazione e sul cui capo pende tuttora un provvedimento di espulsione, nonostante sia regolarmente residente negli USA. La sua storia tra l’altro, analoga a quella raccontata nel recente Tutto quello che resta di te di Cherien Dabis, è sintetizzata nel film: la sua famiglia, originaria di Tiberiade, nel 1948 ha dovuto abbandonare il suo villaggio alla volta della Siria, dove ha vissuto prima in tende e poi, molti anni dopo, in case vere e proprie, con l’idea che la sistemazione fosse tuttavia provvisoria, perché l’obiettivo era quello di tornare in Palestina; il padre di Mahmoud è stato partorito in una tenda, suo fratello durante la marcia di 40 miglia, a piedi, verso Damasco; e lui stesso sogna di tornare lì, un giorno, nonostante abbia studiato in Libano e negli Stati Uniti, e sia cittadino americano.

Il film illustra quindi nel dettaglio, con un montaggio serrato ed emotivamente coinvolgente, e ovviamente dall’interno, attraverso la viva voce dei suoi rappresentanti, la protesta degli studenti della Columbia nelle sue varie fasi, che culminano, com’era accaduto nel 1968, con l’occupazione della Hamilton Hall, soprannominata Hind’s Hall in ricordo della bambina uccisa dai soldati israeliani insieme ai suoi parenti, con trecentocinquanta colpi sparati sull’auto ormai ferma e sull’ambulanza che avrebbe dovuto soccorrerla, riportandone la registrazione della voce su fondo nero (come accade nell’ormai celebre La voce di Hind Rajab di Kaouther Ben Hania, vincitore del Gran Premio della Giuria a Venezia); mostra spezzoni di filmati di repertorio sulla contestazione del ’68, riprese della Palestina di oggi e di un tempo e brani dei telegiornali dei giorni della protesta; ed evidenzia, poi, la repressione del movimento e le cause di questa. Dai primissimi giorni, infatti, l’accampamento della Columbia, che fondamentalmente chiedeva la fine del conflitto a Gaza (quello che qualche mese dopo è stato definito un genocidio) e la sospensione degli investimenti dell’università nell’industria bellica anche israeliana, è stato tacciato di antisemitismo. Gli hanno rivolto quest’accusa i principali media americani, alcuni studenti ebrei (altri invece hanno partecipato, con orgoglio, alle manifestazioni, affermando che riguardavano tutti in quanto sostenevano, con quelli del popolo palestinese, i diritti di ogni popolo), le autorità locali e la stessa amministrazione dell’università, che, a quanto afferma in forma anonima un impiegato dell’ufficio stampa, ha fin da subito indicato quali fossero i termini che era lecito e non era lecito utilizzare nella comunicazione con l’esterno (ad esempio, “Hamas” al posto di “Palestina” e “palestinesi”). Per cui poi, nel momento in cui la manifestazione si è prolungata a causa della fermezza e della determinazione degli studenti coinvolti, è stato gioco facile reprimerla con l’accusa di antisemitismo, che è la stessa che i produttori del coevo October 8 (Wendy Sachs, 2025) rivolgono a quegli stessi manifestanti, usando le espressioni "filo palestinese" e "filo Hamas" in modo intercambiabile, come se chiunque esprima solidarietà agli abitanti di Gaza sostenga implicitamente anche il terrorismo.

È il motivo per cui abbiamo cominciato questo contributo con la domanda che l’intervistatore pone a un’attivista, sul perché la protesta di cui stiamo parlando abbia suscitato reazioni così forti, in persone importanti. Ogni riferimento all’amministrazione Trump è puramente casuale.


 

The Encampments
Stati Uniti, 2025, 81'
Titolo originale:
id.
Regia:
Kei Pritsker, Michael T Workman
Fotografia:
Kei Pritsker, Michael T Workman, Craig Birchfield
Montaggio:
Michael T Workman, Mahdokht Mahmoudabadi
Produzione:
Watermelon Pictures
Distribuzione:
Revolver e Valtellina

Aprile 2024. Nel campus della Columbia University, 50 studenti danno il via a uno dei più significativi movimenti studenteschi contro il massacro a Gaza, occupando gli spazi dell’università e organizzando uno spazio di resistenza in un accampamento. Il movimento viene criminalizzato da istituzioni e media, i manifestanti arrestati e silenziati, ma l’ondata di proteste non si ferma.

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