Robert Zemeckis

Here

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Non è così infrequente, ma è sempre curioso che un film sia stroncato senza appello negli Stati Uniti e in qualche modo sia esaltato in Europa, in particolare in Francia. Ed è quello che, nonostante non sia più tempo di “giovani turchi”, sta capitando a Here, in perfetta continuità e coerenza con la tendenza degli ultimi lavori di Robert Zemeckis, vessati, da The Walk in avanti, dalla critica americana, che non gli perdona nulla (tranne forse Allied: un’ombra nascosta), con un astio fin troppo eccessivo, anche se talvolta non del tutto ingiustificato (Le streghe e Pinocchio sono francamente intollerabili).

Per Here Zemeckis ha ricreato la stessa squadra del suo culto, Forrest Gump: Tom Hanks e Robin Wright, la sceneggiatura di Eric Roth, lo score di Alan Silvestri e la fotografia di Don Burgess. Ciononostante, gli è stato rimproverato soprattutto (perché la lista è varia e articolata) l’involucro da spot laccato, dilatato per oltre un’ora e quaranta, la sostanziale mancanza di profondità delle singole vicende umane e il ringiovanimento sui volti dei due protagonisti con l’ausilio dell’intelligenza artificiale, ritenuto grottesco e imbarazzante. L’impressione, però, è di un certo accanimento piuttosto immotivato. Here parte da un’idea forte, quella dell’artista Richard McGuire, autore dell’apprezzata e omonima graphic novel alla base (pubblicata nel 2014): concentrare nella stessa stanza, procedendo da un unico, fisso punto di vista, i vari personaggi che vi si sono succeduti all’interno e rappresentare le loro dinamiche individuali e familiari. Dal Cretaceo fino all’era Covid, narrando con alterna intensità cinque nuclei e concentrandosi soprattutto sugli ultimi cinquant’anni del Novecento: la famiglia di un aviatore delle origini, l’inventore di una poltrona reclinabile alle soglie della Seconda guerra mondiale, la famiglia di un reduce della stessa guerra, gli Young, che abiteranno la casa fino al nuovo millennio insieme al figlio maggiore e alla moglie (Hanks e Wright) e una coppia di afroamericani con figlio.

Nella trasposizione cinematografica, l’idea forte non si perde, pur rischiando di apparire pretestuosa e piuttosto meccanica. La messa in scena si trasforma di fatto in una sfida d’avanguardia: la sola e unica inquadratura si struttura intorno al suo punto di osservazione (un tinello con grande finestra sull’esterno), tagliato in due da un angolo opposto che funge da linea di forza e riferimento longitudinale per l’ambientazione. Ma quello che pare solo un contenitore, uno spazio statico privo di dialettica con il fuoricampo se non nella misura in cui le informazioni sono recuperate grazie al verbale, al suo interno si anima di figure e si dispone al confronto tra le varie situazioni lungo l’asse del tempo, in una relazione stuzzicata dalla continuità del montaggio, in alcuni casi usato in funzione ludica (penso soprattutto al passaggio dalla perdita nel tetto alla rottura delle acque di un imminente parto, momento che ha indignato alcuni critici oltre oceano), in altri drammatica (le dissolvenze incrociate che evocano le progressive assenze).

Si ha un bel dire che i personaggi sono solo abbozzati e che quindi è impossibile una reale componente patemica: in realtà, la famiglia Young ha un suo sviluppo, benché frammentario, e l’unione dei vari punti disseminati nei diversi decenni se non stimola direttamente l’identificazione, perlomeno genera l’interesse circa una progressione definita. L’aggancio emotivo è naturale e scenografico, non filmico. Dipende dall’unicità dello spazio lungo il fluire delle epoche, nella consapevolezza dell’inafferrabilità dei vari momenti. Il genius loci della stanza diventa uno scenario pervasivo sul quale si proiettano le azioni dei personaggi. Il luogo è lo specchio di ciò che sono e di ciò che fanno, non solo il palcoscenico di un’esistenza, per una sorta di animismo che esprime il vero spunto melodrammatico di fondo.

Zemeckis, incurante della fase meno brillante della sua carriera, si concentra sulla definizione dell’immagine, trattandola come una sacra rappresentazione familiare e cercando di non tradire, pur nell’inevitabile trasformazione del mezzo utilizzato, la filosofia originaria della graphic novel di McGuire. Quello che crea sull’asse cronologico, compatibilmente con il principio sperimentale che motiva l’operazione, è un sistema in cui lo spazio e il tempo si allacciano accavallandosi. Il tempo in Here, il cui titolo allude alla coesistenza di momenti diversi, è formato da istanti sovrapposti che più che avvicendarsi si accumulano uno sull’altro, come la carta da parati, tanto per restare in tema, e che visti in prospettiva creano l’esperienza dello spazio, il suo spirito. Idea già presente nel fumetto ma che in Zemeckis si materializza con i varchi rettangolari che si aprono nell’immagine per viaggiare attraverso i decenni, in un flusso che si fa ininterrotto, di fatto sincronico perché visto nella consonanza attuata nelle varie epoche. Forse è materiale più adatto a un’installazione che a un film; probabilmente è un prodotto che valorizza più il lato visivo che quello narrativo. Tutto vero. Ma in un momento in cui l’infinita proliferazione di immagini ci bombarda sempre sullo stesso versante, Here non può essere letto in altro modo che come breve parentesi particolarmente felice rispetto alla mediocrità di quanto ci viene costantemente proposto.


 

 

Here
Stati Uniti, 2024, 104'
Titolo originale:
id.
Regia:
Robert Zemeckis
Sceneggiatura:
Eric Roth, Robert Zemeckis
Fotografia:
Don Burgess
Montaggio:
Jesse Goldsmith
Musica:
Alan Silvestri
Cast:
Tom Hanks, Robin Wright, Paul Bettany, Kelly Reilly, Ellis Grunsell, Teddy Russell, Finn Guegan, Callum Macreadie, Lauren McQueen, Grace Lyra
Produzione:
Miramax, ImageMovers
Distribuzione:
Eagle Pictures

Da un'unica stanza viene raccontata la vita delle persone e delle famiglie che la abitano nel corso del tempo. Una storia che viaggia attraverso le generazioni, catturando l'esperienza umana nella sua forma più pura.

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