Teatro e cinema. Storia e commedia umana. Musica... e Napoli.
Qui rido io, «romanzo immaginario di Scarpetta e della sua tribù» è una colorata, umorosa e ben sorvegliata sintesi degli interessi e del mestiere di un cineasta colto, polivalente e soprattutto in ancor costante evoluzione.
Con la biografia di Eduardo Scarpetta, miscela di cronache vere e di fatti immaginari ma possibili, Mario Martone non mette solo in scena la vita di un leggendario teatrante, con tutte le tensioni e gli equilibri precari dell'esibizione sul palco, ma ci trasporta, senza peccati filologici e intellettualistici, nella Napoli di fine '800, effervescente di stimoli culturali (qui compaiono e con ragione narrativa, personaggi di un pantheon di giganti, da Salvatore Di Giacomo a Libero Bovio a, su tutti, Gabriele D'Annunzio e Benedetto Croce).
Scarpetta è stato uno dei sommi del Teatro comico italiano. Il suo personaggio di Felice Sciosciammocca è il punto mediano di congiunzione di una triade popolare che comprende Pulcinella e Totò. Ma non solo per quello lo vediamo qui inizialmente sul palco in quel Miseria e Nobiltà che sarà in futuro reinventato e regalato ai posteri nella versione cinematografica con Totò... quella battuta su cui Martone giustamente si sofferma, quella del «Vincenzo mi è padre a me...», serve per inquadrare anche l'altro lato, quello casalingo dell'artista. Perché Scarpetta è una sorta di Califfo, circondato da moglie ed amanti più o meno “ufficiali”, 3 figli legittimi e 6 no, tra cui spiccano, in scala, i tre nati da Luisa, nipote della “vera” moglie Rosa: Titina, Eduardo e il ribelle Peppino, ovvero i futuri De Filippo.
Padre padrone adorato e odiato, dispotico capocomico fiducioso solo in se stesso (ma anche bisognoso di riconoscimenti), Scarpetta, oltre all'affetto e al successo clamoroso, attirerà livori intestini e rancori pronti ad esplodere. Cosa che succederà con la sua parodia de La figlia di Iorio di D’Annunzio, Il figlio di Iorio, 1904. Il poeta finge entusiasmo ma in sostanza si rifiuta di concedergli i diritti sul testo e la sera della prima, una gazzarra organizzata da letterati, fautori del Teatro d'Arte, la boicotterà sino a un processo clamoroso. Amareggiato dal comportamento del Vate (“rapagnetta!”), verrà fortunatamente difeso nientemeno che da Benedetto Croce («È una brutta parodia, non è una contraffazione») e l'audizione finale in aula, con una geniale scelta registica di Martone, si trasformerà in una sorta di clamoroso spettacolo farsesco con chiusura teatrale in stile d'epoca.
È l'apoteosi nella finzione del “teatro leggero”, in cui, come recita la scritta sulla prestigiosa Villa Santarella dove Scarpetta ha trasferito tutto il suo caravanserraglio familiare, “qui rido io”. Ma a ridere è anche la ragione stessa dello spettacolo “basso”, come esplosione collettiva e liberatoria di umori.
La riuscita potenza del film che mette così, narrativamente, in scena anche una seria questione critica, esige un lavoro collettivo di artisti e tecnici di prim'ordine. Così, del cast tecnico, citiamo Ippolita Di Maio, moglie di Mario e coautrice della sceneggiatura; il direttore della fotografia, il sommo Renato Berta che gestisce magistralmente luci e toni cromatici, in un film coloratissimo e per questo anche un po' magico e poi l'autore del montaggio Jacopo Quadri, per non tacere della struggente colonna sonora, con il suo repertorio di sceneggiate, brani tradizionali e numeri da cafè chantant, a sottolineare una storia privata ma non troppo.