«Tu non hai inventato la mia tristezza», dice a un certo punto di Petite Maman la piccola Marion all’amica Nelly, entrambe bambine di otto anni, quasi indistinguibili l’una dall’altra, amiche del cuore e unite per la vita. In che modo è impossibile da raccontare senza rivelare la principale svolta narrativa del film, scritto e diretto da Céline Sciamma durante la seconda parte del 2020 e dunque nel pieno della pandemia (da cui probabilmente il respiro produttivamente minore del lavoro, per fortuna mai sfiorato dalle riflessioni già trite e ritrite sulla vita in quarantena).
Ebbene, perdonateci, ma Marion e Nelly (intepretate dalla gemelle Gabrielle e Joséphine Sanz) sono rispettivamente madre e figlia. Grazie all’immaginazione di una delle due, la figlia, Nelly, che proprio perché incapace di inventare la tristezza, dovendo affrontare il lutto per la perdita della nonna e il temporaneo abbandono della madre sopraffatta dal dolore, inventa l’amicizia.
Sola con il papà nella casa della nonna, grazie a una piccola forma di resistenza o di reazione Nelly crea la presenza dal vuoto, la compagnia dall’assenza. Tra corridoi e stanze semivuote, in un armadio a muro ancora ingombro trova un gioco che fa da tramite a un mondo di possibilità. Senza magia, senza riti di passaggio o valichi da superare, ma semplicemente attraverso uno stacco di montaggio che sovrappone in maniera naturale una realtà all’altra.
«Vengo dalla strada dietro di te», dice Nelly a Marion prima di rivelarle la sua verità. Gli spazi del film sono doppi, mai sovrapposti ma affiancati, posti l'uno dopo l'altro per quanto identici; come se la fantasia di Nelly non sostituisse la sua realtà, ma la sorreggesse. Anche le immagini del film, spoglie e minimaliste grazie alla fotografia di Claire Mathon, rimano in maniera altrettanto elementare, creando una relazione di pieni e di vuoti, con muri per metà imbiancati e per metà tappezzati, ombre che spaventano e ombre che abbracciano, rituali ripetuti, malattie tramandate di madre in figlia, bambine che giocano interpretando ruoli, una un maschio l'altra una femmina, secondo una logica non binaria dei rapporti che la lesbica, militante, ideologica Sciamma riesce miracolosamente, o meglio ancora naturalmente a tenere su un piano di pura rappresentazione (o semplicemente di puro cinema che lavora coi propri elementi di base: lo spazio e il montaggio).
Gli uomini sono come sempre quasi assenti da questo mondo “altro”: il papà di Nelly, affettuoso e un po’ distratto, non ricorda i particolari dell’infanzia della moglie e svanisce dal film senza fare rumore; mentre il rapporto tra madre e figlia, come già succedeva in Barrage di Laura Schroeder, è un rapporto esclusivo tra donna e donna che rinnova l’esigenza di dare al mondo un ordine finalmente squilibrato.
Nel corpo indefinito della femminilità, ancora una volta con tendenze naturali al travestimento e alla mascolinità; nella sovrapposizione incongruente eppure normale fra mondi separati (curioso il parallelo fra Petite Maman e un film molto più pasticciato e irrisolto come Padrenostro); nello stile astratto, autunnale e vagamente onirico delle immagini; nella risolutezza infantile con cui Nelly elabora i suoi traumi («Non chiedere scusa, mamma, mi sono divertita», dice alla madre) si scorge l’essenza del mondo di Céline Sciamma, da sempre oltre l’autorità e la Legge, con il cinema e le immagini a salvare dalla paura delle ombre.