Mettetevi nei panni di Nicole Kidman. Vi offrono una sfida come quella di impersonare Grace Kelly. Di più. Vi fanno recitare la parte di un’attrice che deve imparare a recitare la parte della principessa delle favole. Come si fa a dire di no?
La Kidman è quasi commovente nel suo compito improbabile. Il confronto impari tra il divismo (l’attrice famosa a confronto col mito) e il divino (la grazia di Grace Kelly, la sua bellezza naturale, evidente, che si impone ma quasi con discrezione, rispetto a quella ri-costruita, “faticosa”, cercata dalla Kidman).
Olivier Dahan la scruta spesso da vicino, molto vicino, come per liberarla dalla gabbia dell’icona – dove si ritrova imprigionata in tante immagini eleganti, romantiche, patinate, parafrasi del re(g)ale – per provare a trovare la donna, il sentimento, una sua qualche verità.
Che poi non ci riesca è un dato di fatto. Ma l’operazione non è disonesta. E’ semplicemente sbagliata, perché da una parte non ha il coraggio di scegliere un tono melodrammatico o pittoresco, onestamente popolare, e dall’altra non sa essere all’altezza delle sue aspirazioni, quella di raccontare il “lato oscuro” (il dilemma interiore) della scelta che portò Grace Kelly a rinunciare al cinema e diventare Grace di Monaco, e di trovarle perfino un significato universale, etico e addirittura politico, una lezione esistenziale (essere fino in fondo ciò che si è scelto, o scoperto, di essere).
Grace, infatti, si ritrova al centro di una crisi politica che potrebbe segnare la fine del Principato di Monaco. Charles De Gaulle arriva a minacciare il piccolo regno, se non decideranno di tassare le imprese in fuga dalla Francia (per rimpinguare le casse francesi, all’epoca della crisi algerina). Tutto questo mentre lei ha deciso di cedere alla corte di Alfred Hitchcock e tornare al cinema per impersonare Marnie.
Qualche lezione di protocollo, di francese, di consapevolezza di cos’è una principessa e di quali valori rappresenta, e tutto sembra risolversi con un “sacrificio” che in realtà è una “rivelazione”, oltre a un pistolotto all’americana sull’amore che salverà il mondo (e il principato di Monaco esentasse).
E’ una fiaba. Lo dicono tutti, lo dicono spesso in questo film, il che non risolve i suoi evidenti problemi. Al massimo prova a giustificarli. Tim Roth improbabile nei panni di Ranieri (per non parlare di Onassis o Maria Callas)? In realtà è come se la “storia vera” non fosse altro che una delle incarnazioni possibili di quella favola – trovare un principe e diventare una principessa – che il film vorrebbe mettere in discussione. I risvolti politici sono poco credibili? E’ perché non sono davvero importanti, servono solo a dare forza alla scelta di Grace, a rendere la favola più nobile.
Ne viene fuori un’eroina che ha un suo fascino e potrebbe anche suscitare qualche commozione, se quel mondo non fosse così affettato e artificiale. Non un sogno o una fiaba (che hanno una loro verità e una solida tradizione cinematografica), ma una fuga (dalla verità della storia e dei sentimenti).