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"Winter Sleep" di Ceylan

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Ceylan è entrato in quella terra che in C'era una volta in Anatolia percorreva, scavava, illuminava nella notte con gli squarci di un lampo. Niente più attraversamenti, in Winter Sleep, niente più indagini o azioni da indagare, ma un mondo sopito, scavato nella roccia e immerso nella sua immobilità, popolato da personaggi tornati alle radici e con esse confusi.

Ci sono un uomo di una sessantina d'anni, la giovane moglie e la sorella; insieme gestiscono un albergo sulle montagne dell'Anatolia, anche lui intagliato dentro guglie di terra. Istanbul è lontana, il passato pure, e il presente è sospeso, tenuto in equilibrio da rapporti di forza bloccati, incastonati nella terra. Fuori dall'albergo, nel paese di cui l'uomo e le due donne sono padroni e affittuari, gentili con tutti ma attraverso i loro intermediari pietosi con nessuno, c'è una violenza dettata dallo sfruttamento, dalla povertà di chi non può pagare l'affitto, dal disinteresse codardo di chi finge la propria buona coscienza. E tutto resta lì, soffocato, come il respiro del film nella prima parte. Poi lentamente tutto viene fuori.

Come nel Passato di Farhadi, Ceylan costruisce lunghe scene di dialogo in cui il dolore, i silenzi e le ripicche di anni spezzano relazioni di sangue e sentimenti sbiaditi. Solo non esplodono mai, piuttosto si insinuano, cadono leggeri come la neve. Winter Sleep è girato quasi tutto in interni illuminati dalle luce fioca delle lampade da tavolo, chiuso in un mondo spietato ma confortevole, una civiltà di illusioni ricavata dalla spaventosa e meravigliosa selvatichezza dell'Anatolia: vi si consumano la crisi di un matrimonio, la dissoluzione di una famiglia, l'umiliazione di un povero diavolo, e solo al di fuori dell'albergo la natura sembra liberarsi. In una nevicata copiosa, in un fuoco che brucia il denaro, in campi lunghi da film western, in una rabbia che il protagonista e le sue donne - lui è un ex attore riciclatosi giornalista  tuttologo, la moglie una benefattrice, la sorella una ex traduttrice - non sanno esprimere, assopiti dalla loro buona coscienza. Una parola, la coscienza, come si sente dire alla fine, dal Riccardo III di Shakespeare, "usata dai codardi, inventata per tenere i forti in soggezione".

Ed è proprio questo, il sonno d'inverno, la sonnolenza codarda di chi vive immerso nella propria terra e le è estraneo, straniero con se stesso e gli altri. Straniero anche al proprio sguardo, di fronte al panorama spettacolare di un paese innevato in cui si vive, ma al quale non si appartiene.

Lo stupore e il senso del mistero con cui Ceylan nel film precedente affrontava l'indagine su una morte assurda, in Winter Sleep si sono trasformati nella rassegnazione dolorosa di un gruppo di intellettuali colpevoli ma in fondo impotenti. Non c'è niente che si possa fare, niente che si possa cambiare, per evitare che la gente faccia quel che faccia. Nemmeno immergersi nelle proprie radici, nemmeno fuggire da esse.

E dopo aver costruito in senso teatrale le relazioni fra i personaggi, con grandi scene di dialoghi drammatici e rivelatori, forse memore di quella storia del teatro turco che il protagonista comincia a scrivere solo alla fine, Ceylan chiude inaspettatamente nel segno del mélo, nel segno di una lettera d'amore solo immaginata e mai spedita, incastonando il triste amore fra un uomo e una donna in una forma cinematografica perfetta, capace di liberare i propri tristi eroi dal peso della terra e dal torpore della penombra.

Anche loro, forse, potrebbero diventare come le incisioni rupestri di cui l'Anatolia è disseminata, come le guglie di terra dall'aspetto ancestrale, figure bloccate nello spazio, ma rese bellissime e imperscrutabili da un racconto.