Punjab, 1984: la stagione terribile della rivolta anti-Sikh, in seguito all'assassinio di Indira Gandhi da parte delle sue guardie del corpo di etnia Sikh. L'intero Paese è immerso in un clima di tensione e di violenza imminente, strisciante; l'esercito regolare da una parte e i separatisti Sikh dall'altra infestano la campagna senza offrire sicurezza o protezione, ma anzi facendo richieste, pretendendo favori, minacciando ritorsioni.
In mezzo a un conflitto che ha altrove il suo centro, la povera gente, la maggioranza lavoratrice e silenziosa che non si schiera, non capisce, non agisce, ma al massimo prega e soprattutto ha paura, si guarda attorno, scruta l'orizzonte. Nella notte scandita dal soffiare del vento, dai rumori della natura, anche i cani sono un pericolo, anche abbaiare è un reato. La morte non si vede, ma è ovunque. A mancare sono le persone, chiuse in casa, tenute fuori dai treni, costrette a nascondersi, condannate a respirare l'aria immobile della paranoia.
Chauti Koot - The Fourth Direction, presentato al Certain regard e per ora tra le sorprese di Cannes, è un film di guerra che la guerra non rappresenta, ma mette in scena come presenza da respirare, da patire e restituire. Un film fatto di luoghi di passaggio e di vite sospese: un gruppo di viaggiatori su un treno con l'ordine di non caricare nessuno; un uomo, una donna e la loro bambina perduti di notte in un villaggio di campagna; una famiglia di contadini intrappolati in un conflitto silenzioso con l'ordine di sopprimere il loro cane irrequieto, perché disturba tanto i militari quanto i partigiani Sikh.
Succede tutto, o meglio niente, in campo: la macchina da presa si muove piana e frontale, con precise panoramiche geometriche; il montaggio dà al racconto un passo meccanico, che procede per accumulo lineare, in modo orizzontale. La Storia si sfoga altrove, e lo si capisce dalle notizie via radio, o dalle prime pagine dei giornali venduti nel paese, mentre nelle campagne della violenza giunge un'eco lontana, una follia addomesticata che assume per questo toni paradossali e quasi grotteschi, sfogando la propria rabbia sugli animali e gli impotenti.
Ma non è tanto il paradosso a interessare il regista Gurvinder Singh: è piuttosto la sospensione placida e ottusa della notte, il passare lento delle ore, il rumore di un treno fantasma che conduce a una città che dorme nel coprifuoco; è la paura concreta della possibilità di un genocidio che avviene altrove (nello sterminio di quasi trecento Sikh ascoltato alla radio) e che dunque potrebbe ancora succedere ovunque e in qualsiasi momento.
Per questo, dunque, per un sentimento di suspense e di attesa morbosa, gonfiata da un'insonnia forzata e persistente, Chauti Koot è come un thriller distillato, un film di genere volutamente inerme che si condanna all'esclusione e all'incoscienza, e proprio per questo, nel dolore sordo di chi non ha il controllo del proprio destino (a parte, forse, urlare in una preghiera collettiva, o unirsi in un camminata notturna in cui Sikh e indiani di altre etnie sono simbolicamente insieme), riesce a cogliere con autentico spavento il peso indifferente e imperioso del tempo e della Storia.