La misura di un uomo. Cioè: la misura che un uomo prende della realtà, ma anche la misura che la realtà stessa fa di un uomo, che gli dà. Per una volta, il titolo internazionale del film di Brizé, The Measure Of a Man, mi pare molto più bello e "giusto" di quello originale, la legge del mercato, più banale.
Perché si parla di mercato, certo, come si parla di lavoro, e della crisi del lavoro, ma credo si parli principalmente di violenza. Che non è solo sangue e atrocità: La loi du marché è un film sulla violenza esercitata e sulla violenza prescritta, la violenza subita e la violenza implicita del reale come forma di comportamento e di adeguamento all’altro da sé, visione del mondo e strumento di convivenza.
La società civile? Qualunque idea di giusto e sbagliato si possa avere, e si possa promuovere, La loi du marché prende le misure della persona in qualità di soggetto e oggetto di violenza. Measure. La ricerca di un lavoro diventa per Brizé non tanto un calvario, al quale siamo già abituati al cinema, bensì il progressivo e inevitabile percorso di violenza individuale e collettiva come percezione e conoscenza delle cose. La violenza di un’osservazione. La violenza di un colloquio (magari via Skype). La violenza di un referaggio che è un esame che è una violazione della dignità che è infine uno stupro del decoro individuale.
La misura: nell’inseguire un mestiere che c’è, e che forse è peggio della sua assenza, Vincent Lindon (interprete gigantesco, capace di silenzi ineguagliabili, capace di misura) prima subisce e poi pratica suo malgrado una violenza che non sarà fisica, cioè corporale, ma è devastante come un saccheggio e umanamente decisiva come uno sfacelo. Tanto che perfino lo sguardo attraverso le telecamere a circuito chiuso di un supermercato, alla ricerca di ladri e taccheggiatori, diventa per Brizé un atto d’abuso di ferocia legittima, l’indagine permessa ma non meno autoritaria di una brutalità condivisa.
Ma ciò che più convince, in La loi du marché, è la condivisione della violenza. Che non conosce bene e male, bianco e nero: anche una lezione di ballo può manifestarsi imprevedibilmente come un avvenimento di violenza (il maestro che insegna i passi di danza al protagonista, prendendo il posto della moglie e accompagnandolo per mano, descrive perfettamente l’imbarazzo dell’uomo, messo in crisi nella propria virilità da una situazione assolutamente innocente eppure di evidente perturbazione); anche l’abbandono del posto di lavoro, in superficie gesto di libertà ritrovata, è un’azione di violenza su se stessi dagli effetti cruciali. E se ad ogni violenza corrisponde un’altra violenza (la denuncia di furto che porta alla tragedia), Brizé risolve tutto con una messa in scena di rara sobrietà, districandosi su terreni minati (il figlio disabile) con ammirevole rigore.
Se ha ancora qualche senso parlare di cinema sociale, e di cinema del sociale, La loi du marché è un film che non cerca di dare delle risposte, ma che guarda. Con un’intelligenza etica e un’onestà intellettuale superiori a tutti gli ultimi Dardenne.