All'inizio Napoli è la tavola di un graphic novel, un mondo reale trasfigurato in una idealizzazione quieta. Al suo interno c'è uno spazio chiuso, non privo di coordinate geografiche e temporali, ma reso unico, forse inviolabile, dalla sua originalità. Dentro la realtà, fuori dalle sue logiche. È un centro ricreativo per bambini, costruito fra i palazzi periferici dominati dalla camorra; è un doposcuola che regala momenti di condivisioni e divertimento a quelli che saranno gli adulti di domani. È uno spazio rivoluzionario, altro.
Di Costanzo vi ambienta tutto il suo film, concedendo pochissimo ad altri luoghi e circoscrivendo al suo interno personaggi e linee narrative del racconto. Nel cortile del doposcuola, negli spazi esterni e interni di una comunità retta da operatori sociali e docenti, la realtà di un mondo dominato dall'illegalità trova un pausa; non un ostacolo ma una sospensione.
Chi è l'intrusa del titolo, la "u" che tarda ad allinearsi alle altre lettere nel lettering iniziale? È la protagonista Giovanna, che attorno al doposcuola ha creato una comunità di adulti e bambini e gestisce i suoi spazi con un rigore e un senso della legalità così radicati da sfociare nel paradosso, o è la comunità stessa, enclave di pace in una zona perennemente in guerra? È la moglie del camorrista, che nel doposcuola ha trovato rifugio con l'inganno, e che lì ha deciso di rimanere nonostante l'arresto del marito, o la sua bambina di dieci anni, rabbiosa e scontrosa, ma desiderosa come tutti di attenzione? O forse, ancora, è quella bambina gentile che frequenta il centro ricreativo di Giovanna e che ha perso la parola dopo aver visto il padre massacrato di botte? Ciascuna di queste figure inverte l'innaturale corso delle cose, tira fuori la città stessa dalle proprie tragedie e dai propri luoghi comuni, oppure riporta il sogno della comunità dello spazio a cui non può far finta di non appartenere. Il cortile e gli spazi chiusi dove si svolgono le attività per i ragazzi del doposcuola (lavori con i colori, con la cartapesta, con i pezzi di vecchie bici da ricomporre) raggruppa le infinite linee narrative di una realtà complessa, dove le ragioni di tutti, anche dei criminali, anche di chi sta dalla parte sbagliata, si confrontano con il diritto all'accoglienza e al conforto rivendicato dalla stessa Giovanna.
Di Costanzo non scioglie le domande che volutamente fa nascere dal racconto: il cortile è una scena chiusa, ma al suo interno si gioca una partita aperta e decisiva fra emozione e giustizia, ragione e legge, rigore e pietà, amore e vendetta. Di mezzo c'è l'omicidio di un operaio vittima di uno scambio di persona, l'arresto del responsabile, l'accoglienza di una madre scomoda e dei suoi bambini, la paura e lo scandalo della persone oneste, l'inflessibile moralità di Giovanna, che non chiude le porte del suo mondo a nessuno, nemmeno a chi ha sposato un assassino.
Lo spazio sociale che Giovanna gestisce vive anch'esso in una sorta di ideale "intervallo", è una scena privilegiata, realistica e insieme fittizia, quasi melodrammatica nell'evidenza delle forze che mette in campo. Più che al film precedente di Di Costanzo, però, L'intrusa rimanda ai documentari del regista sul mondo della scuola, a una figura autorevole ed eroica come la sindaca di Ercolano di Prove di Stato o il corpo dirigente di A scuola, al loro incontro quotidiano con l'illegalità in uno spazio di condivisione pubblica. E forse anche alla nave cargo di Odessa, trasformata dalla Storia in un luogo strappato dal tempo e dalla realtà.
Il limite del film sta nella sua stessa chiusura, nella precisione fin troppo ragionata e minimale con cui le linee narrative si intersecano e collidono, evidenziando, più che un eccesso di scrittura, un eccesso di costruzione o interpretazione, che toglie al racconto spazi di libertà anche formale. La sua ricchezza, però, sta nel suo stesso senso della misura, la consapevolezza di raccontare, in un lasso di tempo e di spazio definiti, l'interruzione di un sogno, lo scandalo che potrebbe distruggerlo, e poi di riportare tutto alla paradossale normalità dell'assurdo. Come se i dipinti, le maschere, i carri e gli uomini di ferro costruiti dai bambini nel doposcuola, sotto lo sguardo attento di Giovanna e dei suoi collaboratori, realizzassero per davvero quel mondo al contrario che è lo scopo di ogni carnevalata e nel quale, per un attimo, in un luogo minuscolo e assoluto, le coordinate della realtà sono ridefinite.