A una settimana dalla fine della 70° edizione del Festival di Cannes, abbiamo deciso di aprire un dialogo fra i nostri collaboratori. Sull’edizione, sullo stato del Festival, su suoi problemi, sulle indicazioni che sembra aver suggerito…
Roberto Manassero
Non eravamo pronti per un Festival di Cannes deludente, per un concorso fiacco, medio, con pochi sussulti, forse nessuno o addirittura peggio qualcuno di troppo (come la svolta onirica che a mezz’ora dalla fine butta alle ortiche A Gentle Creature di un autore amato come Loznitsa). Non eravamo pronti, dopo l’edizione dello scorso anno (e tenendo ovviamente in conto che le annate storte capitanoa tutti), per ragionare su un cinema d’autore che si ingabbia da sé nelle proprie ossessioni, che si ripete e non si risolve, che rifà film del passato proprio e di altri (Coppola con Siegel, Östlund con se stesso), che ricalca idee di cinema ormai acquisite (Baumbach con Allen), che parodizza (Hazanavicius con Godard), cannibalizza (Lanthimos con Kubrick), frammenta e disperde (i Safdie con Cassavetes, Ramsay con Taxi Driver e almeno altri duecento film…) e non sembra guardare avanti a sé. O meglio, forse, che guarda avanti a sé proprio sostituendosi al vecchio, prendendone la forma e mutandone in parte l’anima. Un cinema da ultracorpi, insomma. Che poi sia riuscito o meno, importa relativamente (per i giudizi c’è la tabella dei voti dei collaboratori); importa soprattutto la dialettica fra copia e originale, il lavoro di ricalco, ricamo, ricucitura (su cui non a caso è fondato The Beguiled). Baumbach, ad esempio, sembra riaggiornare Allen, la Coppola fa il salto di 180° rispetto all’asse su cui era costruito La notte brava del soldato Jonathan, i Safdie sul tema del doppio (loro che sono pure fratelli…) costruiscono un’impalcatura da storytelling che quarant’anni fa nessuno avrebbe utilizzato in una storia di rapine ed evasioni a Brooklyn. Cannes 70 – non proprio tutto, ma una buona parte – ha certificato che il cinema d’autore sta portando avanti, consapevolmente o meno, una presa in possesso del cinema stesso, del suo passato e della sua memoria.
Chiara Borroni
Sicuramente è stato un Festival di Cannes significativo, forse non proprio galvanizzante ma senz'altro "parlante" per dirla con un francesismo. Cannes 70 ha infatti detto e dimostrato che il cinema contemporaneo, soprattutto quello degli autori adulti, non più giovani (lo sarebbero solo in Italia), è un cinema di una consapevolezza quasi stucchevole, di una raffinatezza assoluta, di un mestiere gestito con autorevolezza e capacità, ed è anche un cinema colto (almeno cinematograficamente parlando). Ma è anche, o forse proprio per questi motivi, un cinema che lascia a distanza, un po' per il compiacimento, un po' per la sensazione di incompiutezza che trasmette. Mai veramente rivoluzionario, ombelicale anche quando guarda al mondo attraverso metafore che si sente in dovere di spiegare, anche quando ripensa a grandi modelli, citazionista ma quasi con arroganza; quello che manca - o forse che interessa meno - sembra proprio essere la volontà di compiere un vero gesto cinematografico, di arrogarsi il diritto di liberarsi da se stessi, dai propri riferimenti, dal proprio ego autoriale. Lasciando da parte le piccole rivelazioni (They, Tesnota) e le conferme non in concorso (Garrel, Denis) ma restando sugli autori, forse solo a Dumont (anche lui non in concorso) sembra concessa la forza folle e anarchica di riprendere se stesso e di affermare il proprio sguardo travisandolo, impastandolo con le sedimentazioni del passato in una modalità paradossale e estrema ma allo stesso tempo riducendolo all'essenziale, manipolandolo con un'arroganza che però si fa davvero creativa e che lo colloca a margine di tutto.
Fabrizio Tassi
Attenzione però a non trasformare una contingenza (produttiva?) in una convergenza cosmica, o peggio ancora in una selezione sballata (per colpa di “una certa idea di cinema”), tesi che per essere suffragata avrebbe bisogno di un elenco di titoli e autori rimasti fuori dal lotto degli eletti (sì, certo, qualche film al Certain, They, Tesnota, Western, ma poca roba, per non dire dei Dumont e Denis che alla Quinzaine fanno un figurone e in Concorso verrebbero massacrati). A costo di banalizzare il discorso, vorrei ricordare cosa abbiamo visto a Cannes negli ultimi tre anni: nel 2016 Paterson, Elle, Sieranevada, Bacalaureat, Personal Shopper, Salesman, Neon Demon, Ma loute, Rester vertical, American Honey (ma anche Neruda, L’économie du couple, Raman Raghav 2.0, Ma vie de courgette, Fiore alla Quinzaine); nel 2015 The Assassin, Saul Fia, Mia madre, Dheepan, Carol, Sicario, Mountains May Depart, Il racconto dei racconti (ma anche Cemetery of Splendour e The Treasure di Poromboiu al Certain, anche Inside Out e Fury Road fuori concorso, o Le mille e una notte di Gomes, Garrel e Desplechin alla Quinzaine); nel 2014 Adieu au langage, Sils Maria, Homesman, Mr Turner, Mommy, Foxcatcher, Timbuktu, Map to the Stars, Winter Sleep, Deux jours une nuit (ma anche Jauja e Amour fou al Certain, P’tit Quinquin, The Texas Chainsaw Massacre, Takahata, Wiseman e Bande de Filles alla Quinzaine, It Follows alla Semaine)... Insomma, è passato da qui (quasi) tutto il meglio visto al cinema nel passato recente, film solidi, compiuti, azzardati, anche film in un certo senso “epocali” - nel senso che riassumono un’epoca dell'immaginazione – o tentativi di forzare i confini del cinema, anche opere personalissime che non si limitavano certo a ricalcare o cannibalizzare. Quest'anno però siamo arrivati al capolinea di quel cinema che è puro dispositivo, meccanismo cinematografico, esibizione di uno stile, un'idea, un esercizio, condotto da raffinati mestieranti troppo sicuri di sé, oppure autori in crisi di ispirazione che si aggrappano alla “poesia”, alla “provocazione”, a un certo modo di intendere l'autorialità colta e impegnata da Grande Festival. Ecco, forse un Grande Festival dovrebbe avere il coraggio e la forza di opporsi a questa deriva, invece di limitarsi a testimoniarla.
Federico Pedroni
Mi trovo d’accordo con Roberto nel notare che ciò che salta agli occhi, in una selezione piuttosto deludente, sia la dialettica autoreferenziale di buona parte dei film visti. Il cinema sembra, per affrontare la realtà e le rinnovate “urgenze” di racconto, guardarsi alle spalle - a modelli, codici, opere e operazioni - piuttosto che spingersi in avanti. Un cinema/immagine che si autoalimenta, si cannibalizza, si digerisce (si vomita?) come perfettamente intuito in The Neon Demon di Nicolas Winding Refn, un saggio sulla materializzazione e sulla propagazione dell’immagine, passato qui lo scorso anno. Comunque, nei film e degli autori in gara, si possono trovare - proprio per questo egotismo filmico - curiosi ritorni e inseguimenti. Così saltano agli occhi le similitudini stilistiche e i rimandi scorsesiani di due film tra loro intimamente contrapposti come Good Time dei fratelli Safdie e You Were Never Really Here di Lynne Ramsay: uno insegue un’adesione cinetica alla rappresentazione dimenticando ogni consequenzialità logica, l’altro annulla quella consequenzialità per costruire una sorta di iperrealismo astratto. Ma in questo formalismo esasperato (raddoppiato addirittura nel dissennato inferno onirico di A Gentle Creature di Loznitsa) che riguarda tutto e tutti – i film riusciti e quelli sbagliati, il simbolismo di Zvyagintsev e il cialtronismo di Lanthimos, le luci del moscissimo Radiance di Naomi Kawase e l’argilla del vetusto Rodin di Doillon - le cose più affascinanti si trovano, per me, nella frizione tra i modelli che certi film evocano e la consapevolezza della distanza temporale che da quei modelli ci separa (compreso Haneke, che fa un quasi un sequel/reboot di se stesso). In questo schema si inseriscono sia il modesto Okja di Bong Joon-ho, che distopizza Spielberg con toni farseschi, sia Wonderstruck di Todd Haynes che, per rappresentare lo scorrere del tempo, si affida a reminiscenze cinematografiche utilizzate in senso assoluto. Mi sembra che il tempo (la consapevolezza del suo scorrere, la necessità di coglierne lo spirito, la rievocazione come forma nostalgica) e la sua rappresentazione siano stati i veri protagonisti di questo festival, anche nella messa in scena del passato prossimo, nello sciocco Le redoutable come nel bel 120 battements par minute. Insomma: quasi tutti i film potevano sembrare dei film in costume, anche quelli ambientati oggi, perché il riferimento cinematografico preesiste e informa l’oggetto del racconto. Questo vale anche per i due film per me più belli: The Beguiled di Sofia Coppola e The Meyerowitz Stories di Noah Baumbach. Certo, sono entrambi delle rivisitazioni, che però sanno mettere al centro della scena e quindi tematizzare e rendere viva proprio quella dissonanza temporale, consapevole e ostentata, che scolpisce e differenzia i modelli originali (il film di Siegel, le coralità alleniane degli anni Ottanta) dalle le presunte copie: lì si nasconde un ragionamento non scontato sul rapporto inestricabile tra tradizione filmica e nuove forme di linguaggio che tiene un piede nel passato ma anche uno sguardo aperto nel futuro, anche se ancora da costruire.
Leonardo Gandini
La mia impressione è che la selezione dei film in concorso sia determinata da una serie di pregiudizi, positivi, basati non sui contenuti dei film ma sui nomi di chi li ha realizzati. Questo rende il concorso simile a un club privato dove hanno accesso i soliti noti, con cadenza biennale o triennale, a seconda di quando hanno pronto un film. È quindi probabile che il prossimo anno in concorso avremo Assayas, Almodovar, Sorrentino, Mike Leigh… Ovviamente questi cineasti possono fare, e spesso fanno, degli ottimi film. Ma rimane la sensazione che il perimetro del cinema di qualità sia angusto, data la riluttanza iniziale ad allargarlo.
Pietro Bianchi
Che cosa vuol dire avere un “pensiero del visivo”? Qual è la differenza tra un buon film (secondo i canoni dominanti, anche festivalieri, che prescrivono che cosa un buon film debba o non debba avere) e un film che invece è in grado di inventarsi una nuova unità di misura anche della propria grandezza e del proprio valore? I grandi registi appartengono a questa seconda specie e quelli in attività si contano sulle dita di una mano, forse due. Quest'anno a Cannes c'erano film del genere o forse, come dice Roberto Manassero, la cifra del festival è stata davvero quella dell'autoreferenzialità: Coppola con Siegel, Baumbach con Allen, Hazanavicius con Godard, Lanthimos con Kubrick? È il cinema che parla del cinema, o che riesce a pescare solo nelle risorse di un visivo che è tutto interno al proprio mondo. Immagini che parlano di immagini, testi che parlano di testi. Forse non è un limite di Cannes (ha ragione Fabrizio, viene da tre grandi edizioni) ma anche il trend che ha caratterizzato la Hollywood degli ultimi anni dove sequel, reboot e remake occupano ormai la maggior parte delle produzioni. È il trionfo del “tutto è già stato detto”, “non c'è più nulla da inventare”. È per questo che forse, per quanto mi riguarda, le boccate d'aria maggiori in questo festival sono arrivate da Hong Sang-soo o Garrel, da Gitai o Kiarostami (e da quella meraviglia di Jeannette): registi che si dice facciano sempre lo stesso film ma che forse, proprio per questo, riescono a essere fedeli all'idea di visivo che sono stati in grado di creare. Anche perché, come diceva Deleuze, è già tanto essere stati in grado di avere avuto una buona idea. Hazanavicius non ha avuto nemmeno quella
Alessandro Uccelli
È vero, è mancata, a Cannes 2017, quella sensazione di “mettere il fieno in cascina” a ogni proiezione, il senso di stupore per la novità e gli stimoli alla riflessione, visione dopo visione, che aveva segnato la nostra trasferta cannense nel 2016. L’edizione del 70° non ha regalato una sala nuova (come avvenne invece dieci anni fa), bensì code interminabili e procedure di sicurezza estenuanti. Ma, ovviamente, non sono dieci minuti in più sotto il sole a obnubilare il giudizio sulle opere, è inutile tergiversare, il Festival di Cannes è stato davvero un po’ troppo privo di smalto. Viene il sospetto, a posteriori, che la polemica con Netflix fosse una (noiosa) macchina del fumo, azionata per tempo a coprire i buchi, gli squilibri, di un programma che, stabilito da strategie di potere non necessariamente attente alla qualità, metteva un’infilata di “obbligazioni a medio termine” in competizione, lasciando il meglio fuori concorso, che fosse al Palais o nelle sezioni collaterali importa relativamente.
E lì stava tutto al ruolo di buon pescatore del direttore, la capacità di intercettare o meno film significativi o, nel caso di annate come la presente, spostare di un poco la rete accettare di comporre un concorso pescando materiali più eccentrici, e qualcuno qui ha giustamente ricordato il bellissimo Closeness di Balagov, un uso del digitale, dei corpi, dei luoghi e dei colori sul quale torneremo di sicuro a parlare; o anche, più “classico” La cordillera di Mitre; o Jeannette di Dumont, sempre più iconodulo e iconoclasta allo stesso tempo; o, forse, quell’oggetto escheriano del desiderio che è Barbara di Amalric: i film non mancavano, piuttosto, la rete della direzione era poco propensa a trattenerli. In fondo, il pensiero va anche a come tutta Cannes, Quinzaine inclusa, l’anno scorso si fece sfuggire dalle mani uno dei film dell’anno, ovvero Nocturama di Bonello.
Mi domando poi che senso abbia festeggiare una ricorrenza di questo peso, restauri a parte, con quello che è forse il film più brutto di André Téchiné, oltre che condire il concorso con almeno due biopic indigeribili, lo sciattissimo Rodin di Doillon e il riduttivo Le redoutable di Hazanavicius: entrambi ancorati a un’idea di biografismo che fa stomacare. Soprattutto il secondo, un bigino sulla vicenda di Godard e della Nouvelle Vague dai toni che rischiano costantemente il revisionismo e il perculamento, proprio nello stesso festival che, fuori concorso, affidava alle immagini semplici e alla voce commossa di Agnès Varda la dimostrazione di quanto uno stronzo possa essere uno stronzo di genio. E di quanto gli si debba, gli si voglia voler bene, malgrado stia barricato in casa, dietro le gelosie socchiuse.
Bruno Fornara
Un’edizione caotica con un'organizzazione approssimativa: continue le lamentazioni dei tanti che a ogni proiezione restavano fuori. E quel che è peggio un’edizione che sembra essere stata progettata e messa in cantiere con l’occhio ai nomi e non ai film. Una vecchia idea da sempre applicata nella costruzione di un festival – idea a parer mio ancora valida – è quella di spostare nel fuori concorso i registi di nome che sbagliano il film. Stavolta sono stati tenuti tutti in concorso, con il risultato che si è visto. L’idea successiva è quella, liberatisi un bel po’ di posti in concorso, di portare al proscenio giovani o anche meno giovani registi di buoni film che stanno nelle sezioni minori. Possiamo fare la prova: togliamo dal concorso Doillon, Hazanavicius, Mundruzco, Haneke, Lanthimos, Loznitsa, Ozon, Ramsay, autori e film con giudizi che sono andati dal dubbioso al decisamente negativo, e al loro posto mettiamo Varda, Mitre (La cordillera), Denis, Carpignano (A Ciambra), Cantet, Balagov (Closeness), Komandorev (Posoki), Grisebach (Western) e ognuno aggiunga i suoi film d’elezione proposti dalla Quinzaine e dal Certain Regard. Avremmo visto un altro festival. Il concorso che abbiamo invece seguito è stato ha semplicemente constatato il faticoso arrampicarsi sui vetri della ripetizione e della supponenza di troppi nomi che rifanno sé stessi con la lingua fuori per la faticaccia. Non ne traggo conseguenze letali per il cinema. Però c’è da sperare che Cannes rifletta.
Andrea Chimento
Il Festival di Cannes più scarso da tanti(ssimi) anni a questa parte? Quello che è diventato una sorta di slogan durante le giornate della settantesima kermesse francese si è trasformato (quasi) in una certezza con la chiusura della manifestazione. Eppure non eravamo partiti certo male, dato che i primi due film presentati in concorso sono stati il potente Loveless di Zvyagintsev e il delizioso Wonderstruck di Todd Haynes, titoli che non sono stati apprezzati da tutti ma che forse avrebbero avuto un’accoglienza superiore se spostati nella seconda, fiacchissima settimana del Festival. Poi i veri protagonisti sono stati i produttori (francesi, in primis) che hanno probabilmente piazzato i loro lavori costringendo il Festival a proiettarli: quasi impossibile, infatti, pensare che i selezionatori non si siano accorti della pochezza dei lungometraggi della competizione e che sotto non ci sia qualcos’altro. Come giustificare altrimenti la presenza dell’inutile biopic Rodin o del grossolano Jupiter’s Moon? O come capire il mistero per cui ancora una volta un’autrice ricattatoria e debolissima come Naomi Kawase continui a essere coccolata dal Festival più “importante del mondo”? Domande che non hanno molte risposte possibili e, mentre ce le poniamo, ci chiediamo anche quale sarà l’avvenire di questa e di tante altre manifestazioni cinematografiche, se persino Cannes non riesce più a interessare come una volta. A Thiérry Fremaux (e, soprattutto, Pierre Lescure) il compito di dare delle risposte che dovranno arrivare già dalla prossima edizione, dato che questo settantesimo è risultato più una celebrazione autocompiaciuta di bassa lega che lo spettacolo che tutti noi ci aspettavamo arrivando sulla Croisette.