È sempre rischioso intitolare un film con un'espressione che significa qualcos'altro oltre al soggetto che racconta, perché facilmente si può trasformare in un'arma critica e derisoria. Ed è rischioso soprattutto quando esprime un concetto positivo. Ma i fratelli Safdie non sono scaramantici: per la prima volta in concorso a Cannes, hanno presentato il loro quarto film (terzo di finzione), che si intitola Good Time ed è insieme negazione e conferma appunto dello “star bene”. Per quasi due ore, tanto il protagonista Connie se la passa male, quanto noi veniamo intrattenuti dal racconto, viziati dalle immagini. Il cinema dei fratelli Safdie (classe 1984 e 1986) è un cinema di narrazione e cinefilia, di chi, nel proprio lavoro, è mosso dallo stesso entusiasmo che emoziona lo spettatore di fronte a un film potente.
Il soggetto di Good Time è una storia che i Safdie hanno covato fin dall'infanzia, una variazione sul tema della rapina finita male e della fuga che consacra Robert Pattinson ad attore, ahinoi, affatto inabile e anzi decisamente valido. Scritto insieme al “terzo Safdie” Ronald Bronstein (loro co-sceneggiatore fisso nonché attore protagonista di Daddy Longlegs), Good Time paga tributo a uno degli stratagemmi classici del cinema d'azione – lo scambio di identità – fondandoci la trama fin dalle prime scene, quando Connie (Pattinson) e il fratello ritardato Nick (Benny Safdie) rapinano una banca indossando delle maschere di lattice funzionali ma scomodissime, a metà tra uomo di colore e i vecchi deformi di Trash Humpers. L'approccio mimetico-fantastico che aveva connotato tutti i loro lavori precedenti si presenta nuovamente, anche se qui più al servizio della diegesi che dell'estetica (come invece succedeva nelle invenzioni magiche di The Pleasure of Being Robbed o The Black Ballon). La nube purpurea e lacrimogena rilasciata dalle banconote quando la rapina sembra ormai andata a buon fine risponde a un'esigenza di realismo ma allo stesso tempo dilata lo spazio filmico con un'immagine eccezionale, che urta contro lo stile documentaristico e a là Cassavetes che caratterizza il cinema dei Safdie. Quando Nick viene rinchiuso nella temibile prigione di Rikers Island (un'altra tappa della psico-geografia di New York che i Safdie hanno cominciato a tracciare a partire dalla Chinatown “domata” degli inizi), per Connie liberare il fratello diventa il motore “inutile” dell'azione. Inutile poiché sostituibile, sia nella psicologia abbozzata del protagonista, sia nell'ordine degli eventi narrativi, da qualsiasi altro mcguffin che mantenga il movimento in corso. Come un Fuori orario più cupo e fluorescente, Good Time è un’opera a scatole cinesi che potrebbe continuare all'infinito. Sostituendo per sbaglio il fratello con un altro detenuto (Buddy Duress, uno dei junkie di Heaven Knows What e vero ex galeotto) e appropriandosi della sua vicenda, Connie perpetua lo schema narrativo in modo quasi matematico: allo scambio di identità succede la conquista dello spazio altrui, in un'incredibile processione in cui lo scopo ultimo è appunto intrattenerci, farci passare un “good time”.
A confronto con i film precedenti, Good Time è stato realizzato con molte più risorse (la produzione è della a24 productions, casa di Moonlight e Spring Breakers e c'è la supervisione di Martin Scorsese). E se ciò ha giovato ad alcuni aspetti (come ingaggiare Iggy Pop e Oneohtrix Point Never per la colonna sonora originale, mentre per i costumi Mordechai Rubenstein, inventore del nuovo street style che trova “beauty in the everyday uniform”), questo cambiamento di regime economico ha avuto forse conseguenza negativa nella creazione di personaggi più superficiali. Opere come Heaven Knows What e Daddy Longlegs si riconoscevano per la scrittura di figure che evidententemente nascevano in seno a una profonda simpatia umana e a una totale assenza di giudizio morale nei confronti del personaggio, mentre in Good Time le stesse figure sono spesso o quasi ridotte a meri strumenti d'azione. Non che questo sia un male in senso assoluto, ma le differenze con il loro cinema precedente, così notevole proprio per questo motivo, si notano.
La fotografia di Sean Price Williams, conosciuto per utilizzare strumentazioni digital-analogiche e responsabile della grana ormai riconoscibilissima anche nei film di Alex Ross Perry, riesce ad assegnare una posizione di rilievo allo spazio anche laddove dominano i primi piani e la ripresa claustrofobica dei volti. L'accensione delle luminarie di Adventureland, un piccolo luna park nella periferia del Queens, risplende con i suoi neon e i suoi riflessi luminosi quasi come correlativo oggettivo degli straordinari eventi. L'avvio in sordina, non pianificato, delle mille luci rappresenta così il tentativo (a volte riuscito, a volte no) di inscenare lo stupore e la magia della visione con mezzi tanto mondani da apparire iperrealistici. Prima ancora che registi, i Safdie sono spettatori devoti di un cinema dove New York è luogo quasi metafisico della narrazione in movimento, dove l'immagine ha il compito non subordinato di celebrare l'azione. E nonostante le imperfezioni, Good Time rivela l'evidente ambizione a sostituirsi, o per lo meno ad accostarsi, proprio a quel luogo.