Luce e ombra. Ombra e luce. Di questo è fatta l’immagine, di questo è fatto il palpitare dei fotogrammi catturati dalla cinepresa nascosta dalla polizia in un gabinetto pubblico, dove vediamo per la prima volta Hans Hoffmann (Franz Rogowski) intento in rapporti con altri uomini, consumati velocemente, come fiammiferi che bruciano tra le dita. Luce, quella che attraversa le pagine impalpabili di una bibbia d’ordinanza, e ombra, quella dell’inchiostro, delle parole a stampa che si ricompongono in comunicazioni umane, troppo umane, in un richiamo, un canto d’amore.
Luce, quella che passa dalla finestra della cella o che inonda la corte del carcere, ed ombra, quella totale della cella d’isolamento, immagine azzerata che si fa macchina del tempo dentro a un sistema – quello carcerario – che il tempo lo nega. Una negazione al quadrato, per chi, come Hans, Leo (Anton von Lucke), Oskar (Thomas Prenn) e tutti gli altri, non ha fatto altro che cercare quel che il cuore gli dettava, il piacere in un incontro fugace, o se si preferisce una specie di amore (Love is a bourgeois construct, l’amore è un costrutto borghese, per dirla con i geni del pop anni ’90). Fa impressione dover ricordare che tutto ciò avveniva in un paese che oggi vediamo come baluardo dei diritti LGBTQI+, ma dove, nel 1945, nel 1957 e ancora nel 1969 vigeva ancora il paragrafo 175 (sarà abolito definitivamente solo nel 1994), il famigerato dispositivo di legge che dal 1871 consentiva di negare sostanzialmente i diritti civili agli omosessuali, e che nemmeno negli anni concitati di Weimar si era riusciti ad abrogare.
Come giustamente sottolinea Viktor (Georg Friedrich), che invece in quello stesso carcere ci è entrato per omicidio quando la guerra era già finita (una storia un po’ alla Döblin), ci sono persone come Hans, deportate giovanissime nei lager proprio a causa dell’interpretazione rigidissima data dal regime nazista al paragrafo in questione, e mai liberate nel 1945, poiché trasferite direttamente dal campo di sterminio alla prigione di stato. L’austriaco Sebastian Meise, che nel precedente Stillleben e nel documentario Outing si era concentrato sul tema della pedofilia, sulla sua rappresentabilità – sulla sua oscenità nel senso etimologico del termine, dell’essere fuori-scena – e sui confini morali che un’indagine su quegli argomenti genera, si cimenta, con l’amico Thomas Reise, sceneggiatore con cui collabora da sempre, con una parte importante del lungo capitolo della storia tedesca in cui a essere ob-scaenus era l’omosessuale.
Le date scelte da Meise e Reise nella loro ricostruzione della storia di Hans non sono casuali: il 1969 perché è l’anno in cui comincia nella Repubblica Federale il processo di depenalizzazione degli atti omosessuali, il 1945 ovviamente per le ragioni già espresse, il 1957 per vari motivi: non da ultimo il fatto che davvero la DDR, indicata da Hans a Oskar come un possibile luogo dove fuggire per vivere liberamente il proprio amore, in quell’anno modifica il diritto penale e consente la tolleranza «se non rappresenta una minaccia per la società socialista». Parallelamente, a Ovest, la Corte costituzionale respinge dopo due anni un ricorso: il paragrafo 175 non è una legge nazista, non è necessario quindi abrogarla. Al cinema, il 1957 è l’anno in cui Veit Harlan (sì, proprio lui, il regista di Süss l’ebreo) pasticcia sul tema, con un film divenuto poi leggendario per l’ambiguità delle posizioni e le manipolazioni censorie a cui sarebbe stato sottoposto, Anders als Du und Ich (§175) (Diverso da te e me (§175)), conosciuto anche, tra i tanti titoli alternativi, come Da wirst Du schuldig und Du weißt es nicht (Fa di te un colpevole e tu non lo sai), e, in Italia, come Processo a porte chiuse. Ovviamente non entreremo nel merito dell’opera di Harlan, ma i tre titoli diversi già danno un’idea della temperatura del discorso pubblico in quegli anni: diversità “assoluta”, colpa involontaria, porte chiuse.
Ecco, è sulle porte che si chiudono e raramente si aprono che insiste Meise. Ma, a ben vedere, anche sul paradosso dell’assenza di porte e di pareti nella gabbia dove Hans riesce a consumare con Oskar nel 1957 e Leo nel 1969 i momenti più autentici e teneri. Meise recupera il meglio del genere carcerario, anche grazie alla possibilità di girare nelle strutture di un vero carcere, abbandonato, in Germania. E sicuramente il rigore formale di Große Freiheit, si abbevera delle condizioni complicate, se non estreme, in cui è avvenuto lo shooting. Ma bisogna ammettere che la parte del leone la fanno le performance controllate e convincenti di Rogowski e Friedrich. Il primo, soprattutto, si conferma uno dei migliori attori europei in circolazione, e con uno slancio da Actors Studio d’altri tempi, carica sul proprio corpo la sofferenza e il candore di Hans, ma soprattutto la sua determinazione assoluta a esprimere la propria identità anche tra le maglie del sistema carcerario.
Sarà questo non conoscerla, in sostanza, la libertà, la Große Freiheit del titolo, sarà il fatto di essere candidamente antiborghese, sarà che di lui vediamo quasi esclusivamente un’immagine ingabbiata, e della sua vita fuori dal carcere sappiamo giusto che ha potuto sfruttare quel po’ di sartoria imparato nel laboratorio della prigione: Hans sembra portare su di sé tutto il senso del titolo/proclama dell’opera fondamentale di Rosa von Praunheim, Non è l'omosessuale ad essere perverso, ma la situazione in cui vive (che esce nel 1971 ma è concepito a ridosso degli atti del 1969). Per lui non esiste altra realtà oltre a quella che lo “rende perverso”, il cucciolo ferito che vediamo nel 1945 è cresciuto con la certezza della pena, fino al 1969, e a quello si è adattato, ha visto i suoi amori morire prima di esistere, li ha allontanati per la paura delle conseguenze dell’amore. Perché Große Freiheit è anche melodramma, rigorosamente senza mélos, senza musica: quando le note della prima e unica canzone si fanno sentire, su Hans finalmente liberato, l’effetto è abbastanza straniante. Per lui, tutta quella libertà è, in fondo, un costrutto borghese.