“Ma come fanno i poveri?”, chiede André quando la figlia Emmanuèle lo informa del costo della pratica di suicidio assistito nella clinica svizzera che ha contattato. Una battuta. Breve, sottile, amara. François Ozon sceglie di portare così sullo schermo il libro nel quale Emmanuèle Bernheim - scrittrice e sua cosceneggiatrice in più di un film - ha raccontato come si è trovata ad assecondare la richiesta del padre, colpito da ictus, di mettere fine alla propria esistenza.
Insiste molto su questo tono lucidamente ironico la sceneggiatura di Ozon, ci lavora con metodo, forse anche con un po’ troppa insistenza, come per dimostrare che si può morire in un modo diverso, o che, perlomeno, se ne dovrebbe avere il diritto. Un modo diverso vuole anche dire potendo scegliere di far convivere il conflitto morale, il dolore personale, il dramma esistenziale e affettivo con la vivacità di spirito. Perché, in fondo, il diritto a morire con dignità non è altro che avere la possibilità di andarsene quando la vita non ci corrisponde più o meglio quando il corpo non è più l’involucro corrispondente allo spirito che contiene. E non è per forza necessario ricorrere a un Dio per morire in pace, non c’è bisogno di affidarsi per forza alla volontà di qualcuno o qualcosa che decida al posto nostro, si può (o si dovrebbe poter) decidere in modo autonomo. Che non significa meno struggente e doloroso.
Un film scritto in modo molto preciso, studiatissimo, che affida con profonda fiducia ai suoi interpreti la parte emotiva ma anche intellettuale del racconto. Sophie Marceau e André Dussollier (ma anche i comprimari) restituiscono il mestiere e il controllo ma anche l’umanità misurata e lucida della narrazione, la regia si sottrae, sta un passo indietro cercando di far emergere il racconto intimo per farne qualcosa di più.
Quella raccontata da Emmanuèle Bernheim nel suo libro è infatti una storia intima ma che è diventata, per intervento del destino, una sorta di gioco di scatole cinesi in cui il cinema, la letteratura, l’amicizia, la vita e la morte si intrecciano indissolubilmente. Già Alain Cavalier (amico di una vita della scrittrice) stava lavorando insieme a lei alla trasposizione cinematografica di Tout s'est bien passé quando l’improvvisa diagnosi di un tumore a Emmanuèle aveva trasformato il progetto. Così la stessa malattia della donna è diventata centrale in Être vivant et le savoir (presentato sempre a Cannes nel 2019 Fuori Concorso) e ha poi dato vita anche a un altro libro scritto dal suo compagno Serge Toubiana Les Bouées jaunes. Tout s'est bien passé sembrava dunque segnato a dover trascendere se stesso e a dare abbrivio a questa riflessione composita. Non un journal intime ma una sorta di domino di sguardi personali, nessuno esterno, tutti coinvolti, tutti costretti a misurarsi con la Morte: la propria, quella altrui, quella delle persone che si amano. Perché la morte è di tutti ma questa morte dignitosa in cui può andare tutto bene non è per tutti. Anche per questo Ozon sceglie di continuare attraverso un racconto cosi privato il suo discorso “politico” che, dopo Grazie a Dio, affronta un’altra questione spinosa (per la Chiesa cattolica ma non solo), una questione ancora lontana da aver trovato una dimensione di civile legittimità.