Questa sera su RaiMovie (canale 24) alle 23:15 A History of Violence di David Cronenberg. Cineforum 451 gli dedicò uno speciale con i pezzi di Giuseppe Imperatore, Jonny Costantino, Francesco Cattaneo e Francesco Ruggeri. Abbiamo scelto l'articolo di Ruggeri che pubblichiamo integralmente, ma vi consigliamo di recuperare anche i restanti (che trovate sulla rivista in formato cartaceo e pdf).
Una “straight story”
Quella di History of Violence è una perfetta (almeno fino ad un certo punto) straight story. Sì insomma, la storia di un racconto lineare, rettilineo, luminoso, di quelli potentemente classici che distendono lo sguardo, marcando stretta la superficie delle cose. Un viale alberato, una fila di case a schiera, le automobili parcheggiate nel box di casa: l’effetto cartolina è assicurato, garantito al cento per cento. Ma c’è di più. Un ricordo vago, poi via via più preciso: quello di simili casette a schiera, di stradine pulite allo stesso modo e di corpi catturati in pose statiche, quasi plastiche. Non è un caso (forse) che il “secondo” incipit del film di Cronenberg ci abbia ricordato per molti versi proprio la straight story per eccellenza del cinema di oggi, quella dell’Alvin Straight di Una storia vera. Stessa maniacale attenzione alla pulizia prospettica d’insieme, brillantezza formale d’eccezione, panoramica mozzafiato su corpi e cose visti in lontananza, spesso appena abbozzati. Poi, un semplice movimento di macchina e si cambia angolazione, sguardo e percezione visiva. Tutto qui, sembra niente, ma è tutto, specialmente poi se si è intenzionati a farsi due-domande-due su dove vada certo cinema oggi. E allora: panoramica che va a inquadrare ossessivamente lo spazio ristretto di un giardino, laddove una donna opulenta di mezza età prende tranquillamente il sole. Il dolly precipita poi verso il basso, si avverte un tonfo sordo e ci si rende conto che è successo qualcosa. Il vecchio Alvin è caduto in terra… Questo l’incipit di Una storia vera, segno inequivocabile della propensione dello sguardo di Lynch a smascherare in due atti la falsità dell’immagine e lo scacco cui è sottoposto l’occhio, sempre. Tanto basta a ridire la posizione filosofica dell’autore di Blue Velvet e la sideralità complementare e opposta in cui versa il cinema di Cronenberg tutto, History of Violence compreso. Basta spostare di pochi millimetri l’asse dello sguardo e un mondo va in frantumi (Lynch), basta incollare ossessivamente l’occhio ad uno stesso oggetto e questo ti cambia vorticosamente davanti (Cronenberg).
History of Violence è la storia di un corpo smembrato, ma anche la cronistoria allucinata di una vivisezione del reale condotta dal basso, orchestrata a filo d’erba, rasente l’epidermide della terra. Non ci sono panoramiche e totali che tengano, ma campi medi, primi piani, dettagli improvvisi. Il reale è reale, l’immagine è immagine, e il cinema, di conseguenza, non deve smascherare e scoprire, ma tracciare la radiografia di una metamorfosi, producendo una doppia lastra del visibile. Come in Spider, l’organico muta in inorganico, il dolore del passato si converte in paralisi del presente, e il tutto avviene miracolosamente sulla carne di organismi inquadrati sempre alla stessa altezza. Se in Lynch il corpo vecchio e stanco di Alvin accendeva l’anabasi del suo passato salendo in sella al suo piccolo tagliaerba fuori da ogni tempo, Mortensen non fa altro che dialogare a distanza con il suo doppio, fin quando non avviene l’esplosione dello specchio e la messa in distruzione della sua identità. Primo piano su Ed Harris che inforca un bel paio di occhiali da sole. Sorpreso dalla m.d.p nel gesto di toglierli, Harris spoglia improvvisamente il suo sguardo di ogni ambiguità e mostra con nonchalance il suo occhio finto. Gesto apparentemente piano e regolare, come quello di ogni straight story che si rispetti, ma anche come quello di straight story giunte prematuramente al loro capolinea. Tornano in mente i fili di ragno intessuti sulla luce sepolcrale di Spider e la struttura casalinga stravolta dal cancro pulviscolare della decomposizione. Sta di fatto che Mortensen, cadendo nell’occhio manca(to)nte di Harris, riaccede alla natura replicante del suo “io” quotidiano, cedendo al cannibalismo rutilante di ogni mutazione che si rispetti. Senza stacchi, senza cesure, senza transiti. In History of Violence il cinema di Cronenberg torna a raccontare di atti primari (la lotta per la sopravvivenza incorniciata in una struttura simil-western) e di cross-over inquietanti tra il mondo dell’inorganico, del marcio, del putrido e quello della rispettabilità borghese chiesa/casa/lavoro. Ma non c’è più nulla da stravolgere, più nulla da trasformare. Il corpo ibrido che ci si para davanti è quello di un cinema già mutato, quello di occhi malati (lo sguardo finale di Mortensen a tavola) che non vogliono più chiudersi.