Questa sera alle 21:15 su Cielo (canale 26) Amour di Michael Haneke, vincitore della Palma d'Oro a Cannes 2012 e premio Oscar come miglior film straniero 2013. Riproponiamo la recensione di Carlo Chatrian per lo speciale di Cannes su Cineforum 515. È anche possibile leggere la recensione di Tina Porcelli su Cineforum 519 (cartaceo e pdf).
Michael Haneke è un regista della crudeltà. Lo si è detto quando si attaccava a storie di violenza, lo si dovrebbe ripetere ora che ha realizzato un film carico di rispetto per i suoi personaggi. Tanto nei precedenti lavori quanto in quest’ultimo si respira un senso di implacabile costrizione, definito da un percorso narrativo che finisce per mettere lo spettatore in una posizione scomoda. Senza far ricorso ad alcun coup de théâtre, Haneke opera per andare oltre la sfera sociale e quel sistema morale che il cinema sovente certifica. Fatte salve queste premesse, mi sembra che il suo linguaggio da Funny Games in poi abbia trovato una diversa via d’espressione. Dalla “ricerca gratuita e disinteressata del male fisico” si è passati a descrivere un atteggiamento più affine a quel senso di rigore con cui Antonin Artaud definiva la sua concezione di “crudeltà”. Il paragone può sembrare azzardato, ma quando il drammaturgo francese parla di «vita che supera ogni limite e si mette alla prova nella tortura e nel calpestamento di tutte le cose» non può non venire in mente la vicenda di Amour.
Racchiuso nello spazio di un appartamento borghese (se si esclude il prologo con l’inquadratura fissa sulla platea nella sala da concerto), il film descrive le ultime settimane di convivenza di una coppia di anziani musicisti. Da quando Anne è colpita da un attacco ischemico, la sua vita – e, di riflesso, quella del marito, Georges – è sottoposta a un rapido e inesorabile processo degenerativo. Al venir meno dell’integrità fisica della donna, la coppia decide di troncare il sistema di relazioni sociali di cui disponeva. La forza della scelta di Haneke sta nel non fornire spiegazioni: le decisioni di Georges e Anne appaiono come la presa d’atto di una situazione che impone misure drastiche. L’esclusione al prossimo (se non all’occhio del cinema che – come un palco di teatro – è altro appunto dallo sguardo sociale) fa tutt’uno con la scelta formale di escludere ogni spazio al di fuori di quelli definiti dal perimetro dell’appartamento. Ogni intrusione dell’esterno – sia questa la visita della figlia o un piccione che si intrufola da una finestra aperta – finisce così per avere una valenza disturbante.
Torturati e messi alla prova, passo dopo passo, Georges e Anne diventano i protagonisti di quello che potrebbe essere definito il primo vero (melo)dramma di Haneke. Amour è infatti la storia di una relazione cui si oppone un fato avverso. Il pathos struggente messo in mostra (sebbene sempre raffreddato da uno stile che non elimina la distanza) è determinato dalla resistenza al destino, all’inevitabile sgretolarsi della vita biologica. Come degli eroi tragici, gli uomini di Haneke sono generalmente più piccoli dei problemi che affrontano: nonostante la cultura di cui sono depositari, nonostante l’alto grado di protezione fornito dalla scienza e dalla tecnologia, appaiono insicuri e impauriti fin dentro le mura domestiche. In parallelo al decorrere della malattia l’appartamento diventa qualcosa di più di una metafora, l’estensione del corpo. Un po’ alla volta gli spazi si riducono: via la cucina, via il salotto, fino alla sola camera da letto… Allo stesso modo agli straordinari interpreti vengono progressivamente tolti alcuni dei loro strumenti principali: il discorso, la parola, il corpo… In questo processo di contrazione, il film acquista in intensità e purezza. Messa a nudo, la relazione tra i due protagonisti non perde un grammo della sua intensità; anzi, finisce per esplodere nell’unico gesto d’amore possibile.