Questa sera su canale Nove alle 23:30: Attacco al potere di Edward Zwick. Come scriveva Giacomo Manzoli su Cineforum 382, un film che “resta imbrigliato nella rete delle sue troppo buone intenzioni [...] e, come spesso accade, rischia di ottenere effetti opposti”.
Ci sono film a tesi e tesi che assumono accidentalmente la forma di un film. A questa seconda categoria appartiene Attacco al potere che, prima di perdersi nella melma di una geometria troppo perfetta per non imbarazzare, promette veramente bene. La tensione è alta, Denzel Washington fa la sua parte alla Poitier col solito piglio, Willis viene usato come icona e subito messo da parte. Le buone premesse culminano con la sequenza del sequestro di un autobus. Denzel contratta, con la solita aria fiduciosa che deve avere il negoziatore di turno. Contratta anche bene, offre prova di eroismo, si espone senza armi alla ferocia degli attentatori, riesce perfino ad ottenere che vengano rilasciati i bambini che fanno parte del gruppo in ostaggio.
Poi, come in un brutto sogno, un sogno troppo irreale perché si possa parlare di incubo, i terroristi fanno esplodere l'autobus, dunque se stessi e un bel gruppo di innocenti presi a caso. Il trucco della sordità di Washinghton come soggettiva sonora con cui enfatizzare l'esplosione non è certo nuovo e non colpisce più di tanto, specie dopo aver assistito alla sordità intermittente dello sbarco in Normandia spielberghiano. Però la sequenza è magnifica e una volta tanto ci è parso di poter applaudire ad un uso del grandangolo misurato ed efficacissimo. Il reale irrompe e fa a pezzi la coscienza, l'assurdo si fa concreto nei resti di lamiere e di esseri umani che per qualche minuto continuano a piovere dal cielo splatter di New York. Già il suicidio, di per sé, sfida la possibilità di riconoscere con la logica i confini dell'universo umano; l'azione terrorista suicida, poi, qualcosa di cui è veramente difficile rendere tangibile il senso (perché senso non ha) attraverso la convenzionalità dell'immagine filmica, viene qui rappresentato con un'efficacia rara e predispone ad accettare come plausibile l'escalation di atti insensati che segue.
Solo che quello che segue procede secondo uno schema scolastico, verboso e perfettamente prevedibile nelle sue simmetrie. Tutti hanno le loro buone ragioni, ma alcune sono più valide di altre. L'Fbi e la Cia si purificano dei loro peccati perché stavolta il cattivo è l'esercito. Però, siccome la Cia è più colpevole, deve espiare di più, e la sua rappresentante (che si sogna anche di copulare con un terrorista: atto simbolico del tutto immotivato nell'economia del film) alla fine inevitabilmente crepa. Ad arabi cattivi, terroristi dallo spessore poco più elevato di quello attribuito ai loro colleghi in True Lies, corrisponde l'arabo "buono", alto ufficiale dell'Fbi, e siamo pronti a tagliarci una mano, se nell'intero Fbi esiste un musulmano con incarichi di responsabilità. Poi c'è l'esercito, che non è cattivo in sé, ma in un singolo esponente depravato e assetato di potere, incapace perfino di torturare come si deve un sospettato. Come in una specie di Ben Hur fuori contesto, i bravi soldati sentono le tentazione di mantenersi fedeli fino all'ultimo al loro generale, ma alla fine capiscono la necessità di abbracciare i valori della democrazia. E, come loro, il popolo americano. Quest'ultimo è sì vittima di un panico inconsulto provocato da folli attentati, però, al dunque, nel vedere che dei suoi fratelli vengono discriminati in blocco per le colpe di pochi, si ricompatta nel perorare la causa degli islamici buoni.
Va bene, e allora? Allora dov'è questa minaccia di stato d'assedio che gli Stati Uniti corrono? Dov'è la necessità di un film così volgarmente dimostrativo? Dov'è l'efficacia in cui i buoni sono così pervicacemente buoni, i cattivi così stolidamente cattivi e gli ambigui così dolorosamente tormentati? Sempre indeciso fra la cronaca e la fantapolitica, Zwick dimostra ancora una volta di avere una buona propensione all'epica, ma il film resta imbrigliato nella rete delle sue troppo buone intenzioni. Si avverte la stanchezza di dimostrare l'evidente, di allargare a dismisura i puntini sulle "i", di tirare dalla propria parte tutti quelli che non è detto debbano essere necessariamente dall'altra. Al farisaico si associa l'ecumenismo, e la miscela è preoccupante. E, come spesso accade, rischia di ottenere effetti opposti: di fronte alla beatificazione dell'Fbi, alla (sia pur parziale) riabilitazione della Cia - nella quale spicca una Annette Bening spudoratamente fuori ruolo -, all'ennesima celebrazione della intrinseca bontà del popolo americano, si viene percorsi dal brivido che questa sia la vera interpretazione della politica da parte della "sinistra" americana. Così affiora la sottile tentazione di convertirsi alle ragioni repubblicane. I soldati, se non altro, indossano vistose e ingombranti divise che li rendono impacciati e riconoscibili.