Questa sera su Rai Movie (canale 24) alle 22:40 Diario di uno scandalo di Richard Eyre con Judi Dench e Cate Blachett. Pier Maria Bocchi e Luca Malavasi scrissero la scheda per Cineforum 462 e noi ne pubblichiamo alcuni estratti.
Giochi d’amor perduto
[...] Quello che in Italia è chiamato Diario di uno scandalo è invece una serie di annotazioni su un caso di cronaca; non è affatto un diario, né di Barbara (che appunto ne tiene uno suo, personale, pensieri in voice over che non raccontano la realtà allo spettatore, ma a se stessa, quindi sfalsata), né di Sheba, né tanto meno di Steven. Le note del film di Richard Eyre riguardano gli eventi intorno a un fatto, sono in successione come si conviene alla temporalità, e possiedono il rigore a-sentimentale che ci si aspetta da un blocco di appunti. E quelli del film rasentano il gelo. Notes on a Scandal (d’ora in poi lo chiameremo solo così) è il resoconto per frasi, parole e spazi di una mostruosità certa, in pace con sé (tranne che per alcuni leggeri sbandamenti, subito rientranti) perché abituata così. E l’abitudine, si sa, fa aver ragione delle cose.
I cattivi dormono in pace
Lasciamo stare che Barbara sia un mostro, è evidente, e fa parte dell’assunto dialettico. L’orrore inenarrabile di Notes on a Scandal è il suo ufficializzare – involontariamente? – la deriva definitiva dei sentimenti nella matematica del possesso. Bisogna partire dal successo di Barbara, che riesce a portare a termine – seppur brevemente, e del tutto casualmente – ciò per cui ha agito e a cui ha pensato da quando Sheba è entrata nella sua scuola. Barbara vuole avere per sé Sheba, intende tenerla a sé, come un gatto. Il processo di rifiuto e critica che da subito mette in atto nei confronti della donna, elemento estraneo all’ambiente scolastico ingessato (almeno in superficie), è sintomo elementare e addirittura bambinesco di un desiderio. In effetti, Barbara è una bambina: non appena Sheba le si dimostra “amica” (invitandola per un pranzo), la mutazione dell’atteggiamento e della visione è repentina. E tragica, perché è da questo momento che Barbara comincia – da perfetta bambina cattiva – la sua opera di auto-convincimento di passione. [...] Molto opportunamente (e in maniera per questo scandalosa, cioè scioccante come un pugno in faccia), Notes on a Scandal evita il romanzesco, si libera del soggettivismo autarchico della protagonista e presenta i fatti così come avvengono. In più, impedisce alla voce di Barbara di trasformare il racconto (come già ha fatto con la realtà): ciò che si vede, insomma, sono giustappunto delle annotazioni. [...]
Il lato oscuro delle parole
Barbara non è però soltanto una bambina capricciosa che amerebbe collezionare i suoi amori perché non sa amare. È anche l’immagine disturbante di quanto la mancanza d’amore possa rovesciarsi in una sua inconsapevole dissoluzione. La radiografia dei sentimenti è spietata, lucidissima, e il film – come il libro – sfugge abilmente l’appiattimento della matematica psicoanalitica. Anche se in questo caso, per capire meglio il profilo del personaggio, bisognerebbe sfogliare qualche libro di sociologia, perché Barbara emerge a poco a poco come il prototipo di quell’Inghilterra perbene, dall’eloquio pulito, dai modi sofisticati e dal galateo impeccabile, che viene dritta dai romanzi di Forster e dall’immaginario ottocentesco. Un concentrato di buone maniere, la retorica di una classe sociale e di un’ideologia nazionale, fuori tempo massimo. Un anacronismo vivente destinato a innamorarsi del suo contrario per sottometterlo e umiliarlo: la didattica è nel sangue di Barbara, e l’attrazione per l’esotica Sheba è destinata a pieghe sadiche, a patto che la ragazza non accetti subito di cambiare vita, abitudini, idee. Sheba non solo non lo fa, ma offende Barbara rivelandosi perfettamente a suo agio nei panni sporchi di una famiglia sgangherata e di una vita da post-hippy. È un principio caotico e pulsionale, immagine del desiderio disordinato, della sua eterna titubanza e della sua doppiezza vissuta senza vergogna. [...] Notes on a Scandal è un bellissimo film sull’esperienza delle cose, quella vera, epidermica, sensibile, e quella differita, cartacea, intellettuale. Barbara scrive, sogna, immagina, mentre Sheba vive, fa l’amore, si incasina l’esistenza. A un certo punto, accusando l’amata di non capire la sua situazione, Barbara sbotta: non sai cosa vuol dire non essere mai toccata da nessuno. Barbara guarda e inventa storie, e introduce perfino un commento nel film, perché le parole sono il suo unico strumento di possesso. Ma, in fondo, vorrebbe toccare le cose e soprattutto farsi toccare, e smetterla di masturbarsi – perché di questo si tratta – nel monologo privatissimo del suo diario. Il problema è però dosare l’energia e per chi, come lei, non ha mai imparato la forza di gravità dell’amore, le carezze si trasformano inevitabilmente in schiaffi e l’abbraccio dell’altro finisce per tradursi in un tentativo di soffocamento, proprio come accade sul pavimento della sua cucina, con Sheba sopra di lei. E del resto, per una collezionista come Barbara, inchiodata alla sua retorica gelida e invasata dalla compilazione di un «De amore» fuori dal tempo, solo la morte – di sé o dell’altro – s’adatta a siglare il finale. Morte reale o simbolica: la prigione per Sheba, la devastazione dell’ordine delle note (e la scoperta del loro contenuto scandaloso) per Barbara, e il suo pensionamento forzato.
E poi, alla fine, tutto ricomincia. Come in un classico film dell’orrore, sulla stessa panchina, commentando il tempo e il panorama. Al posto di Sheba c’è un’altra donna, che un po’ le somiglia. Identici, invece, saranno il contenuto dei diari e il tenore del commento. E, c’è da scommetterci, il finale di quell’ennesima relazione appena cominciata, e inaugurata dalla pagina bianca di un nuovo quaderno d’appunti. [...]