Questa sera su Iris (canale 22) alle 21.00 Fino a prova contraria film del 1999 di Clint Eastwood, che interpreta il reporter Steve Everett, vero e proprio antieroe cinematografico, come scriveva Adriano Piccardi nella scheda scritta per Cineforum 384. Ne riportiamo qui alcuni estratti.
[…] Steve Everett è un individuo votato al dubbio, alla precarietà del punto di vista e non solo di questo: il terreno gli manca sotto i piedi continuamente, anche nella vita affettiva, sessuale, nella professione. Non è uomo che cerca la sicurezza e neppure la dà. Il fatto di essere anziano non gli concede alcun margine, nel suo lavoro: il suo passato, invece di fornirgli autorevolezza e fiducia da parte dei colleghi, gli ha cucito addosso la fama del piantagrane inaffidabile; l'ultimo scoop riuscito di cui è stato protagonista non gli ha procurato né gloria né quattrini, al contrario, lo ha costretto a cambiare aria. Ne facciamo conoscenza mentre è impegnatissimo in una avance nei confronti della giovane collega, che, dopo averlo cortesemente respinto, muore immediatamente in un incidente d'auto, dandogli così, il giorno dopo, l'"opportunità" di sostituirla in un servizio di assoluta routine (nelle intenzioni del capo redattore): l'intervista a un condannato a morte che deve essere giustiziato poco più di dodici ore dopo. L'immagine di Everett che scaturisce da questa presentazione, inutile dirlo, è alquanto sgangherata, traballante e un tantino jettatoria. A questo si aggiunga che, dopo averlo visto scaricato nella notte al bancone di un bar, lo abbiamo ritrovato al mattino nel letto della moglie del suo capo redattore e, nell'occasione, siamo venuti anche a sapere che pure lui è sposato: non c'è che dire, un tipo che, in quanto a moralità, non ha da dare lezioni a nessuno.
D'altra parte, occorre ammettere che nessuno ha da dare lezioni a lui, a giudicare dal microcosmo professionale che gli viene tratteggiato intorno nella sequenza che lo vede prendere servizio in redazione, richiamato in fretta e furia per sostituire la ragazza morta. Da quel momento in avanti, qualsiasi considerazione abbiamo potuto fare sulla levatura morale di Everett, verrà poco a poco riassorbita e, per così dire, messa sotto nuova luce dal delinearsi di un mondo a lui circostante, dentro e fuori dal giornale, che si mostra di dettaglio in dettaglio sempre più livido e dannato. Sono ben poche le persone che si salvano, e sono le più fragili: la moglie e la bambina di Everett, l'innocente condannato a morte e la sua famiglia. Ed è ben amara l'ironia con cui Eastwood regista conduce il suo personaggio a salvare questi ultimi, perdendo inesorabilmente le prime due lungo la strada.
[…] Non va alla ricerca della giustizia, né una simile prospettiva è capace di muoverlo a sentimenti migliori, per il semplice fatto che una tale ricerca sembra, a lui per primo, improponibile. È piuttosto un altro il tema che si fa strada, e cioè quello della ricerca della verità. [...].
D'altra parte, il problema del rapporto tra visione e verità (la domanda è sul conseguimento della verità: innanzitutto, è possibile? e poi, come?) attraversa ormai puntualmente i film di Eastwood. […] Eastwood regista ri/vela (cfr. B.Fornara in «Cineforum" n. 364, p. 65) un pensiero ricorrente, una costante del suo lavoro con il cinema sulla materia del reale: la ricerca della verità è un'arte (questo è l'altro significato contenuto nella frase di Jim Williams), dunque è un fare (saper guardare è un lavoro, dunque un fare). E in questo senso che Eastwood fa cinema ed è dentro questo senso che va cercato in questo film il legame tra Eastwood/regista e Eastwood/Everett. E, come in ogni processo artistico, il risultato del lavoro di ricomposizione dei particolari operato dal reporter (unico adulto capace di rispondere veramente alla richiesta, minima e concreta, della piccola Gail) è qualcosa di cui il protagonista è in parte un responsabile produttore, ma da cui è anche disponibile a farsi condurre inconsapevolmente. Lo sguardo (di Everett, di Eastwood) si apre in misura della sua disponibilità alla visione: quello di farsi indietro per lasciare affiorare la verità nella luce di ciò che appare è con ogni evidenza l'imperativo a cui Eastwood ha deciso di affidare il suo cinema di questi anni recenti.
[...] Il personaggio non è certo nuovo nella galleria degli antieroi cinematografici, anzi appartiene a una consolidata tradizione, applicata a generi diversi. Anche per l'affinità dell'atto del ricercare che li accomuna, è al detective hammettchandleriano che ci fa pensare: a confortare la legittimità dell'accostamento stanno la struttura labirintica e oscillante dell'indagine; la casualità degli snodi determinanti per il suo progredire; il divenire del personaggio, che passa da una dimensione iniziale di febbrile autoconsapevolezza della propria azione a quella conclusiva di medium del disvelamento in atto, quasi trascinatovi da una forza che egli ha saputo evocare ma che, da un certo momento in poi, lo sovrasta; e, naturalmente, l'impossibilità, al di là della soluzione del caso e della consapevolezza di tutto il marcio che lo circonda, di determinare anche un solo, minimo cambiamento del contesto, delle condizioni per cui una situazione simile possa in futuro ripresentarsi.[...]. È chiaro a chiunque abbia visto il film che l'assunto di Fino a prova contraria non è l'espressione di un no alla pena capitale; il bersaglio è piuttosto un intero sistema di rapporti sociale ed economici, di cui anche la pena capitale fa parte in modo funzionale alla sua autoriproduzione e alla sua prosperità.
[…] Una considerazione a parte merita la cruda freddezza con cui viene invece tratteggiato il sistema carcerario: la cupa asetticità con cui "protegge" i suoi “assistiti" negli ultimi momenti che precedono l'esecuzione; la pseudo-partecipazione quasi famigliare con cui i carcerieri trattano Frank, contrapposta alla volgarità che sanno mostrare quando non sono in sua presenza. Un mondo perfetto per dare senso alla pena di morte come normale strumento del potere giudiziario: tutto vi si svolge secondo tempi e raccordi previsti, "oggettivi", collaudati, ripetibili a memoria e a volontà. Fuori, i movimenti di Everett si susseguono secondo un tempo della narrazione totalmente in soggettiva, magmatico, incontornabile, a tratti incalzante e spasmodico, a tratti spossato e quasi lacunoso; la continua giustapposizione fra le due dimensioni temporali imposta la prospettiva della rappresentazione sulla figura dell'incommensurabilità, e dunque di una necessaria incomunicabilità. Assolutamente giusto, perciò, il tocco conclusivo: la tortuosa rincorsa di Steve Everett si conclude con un telefono che squilla, a fianco della camera della morte, a cui segue una sospensione narrativa, un'ellissi che conferma la scissione fra il dentro e il fuori e che rimanda la conclusione del lungo montaggio alternato, su cui il film è costruito, ad un momento successivo. Non si tratta soltanto di mantenere intatta la tensione per preparare il secondo finale, ma di scegliere fra due scenari, e di schierarsi a favore di uno di essi, escludendo automaticamente l'altro come unico luogo possibile d'incontro (l'accenno di un saluto, nella proverbiale laconicità eastwoodiana, è già un incontro): non sarà la salvezza per nessuno, ma è già qualcosa.