Questa sera alle 21:15 su Rete 4 Gran Torino, uno degli ultimi grandi capolavori frimati Clint Eastwood. Ecco un estratto della recensione di Manuela Martini apparsa in apertura di Cineforum 483 dell'aprile 2009.
Un vecchio, grintoso e ringhioso, disamorato di quasi tutti gli esseri che lo circondano (tranne la vecchia cagna Daisy, che sta diventando sorda). Un ragazzo cinese e sua sorella, che tentano faticosamente di integrarsi nella vita americana. Due case vicine, quasi identiche, con il prato e il patio antistante, dove siedono e si guardano in cagnesco e s’insultano da lontano il protagonista e una vecchia cinese. Due interni, una chiesa, un giovane prete che non si arrende davanti ai peccatori recalcitranti, ma che cede all’istinto davanti alle ingiustizie. Una bellissima auto d’epoca, la Ford Gran Torino del 1972, lustrata e ferma nel garage, e le auto straniere che scorazzano per le strade. Alcune figure di contorno, poche. Pochissimi ed essenziali i movimenti di macchina. Asciutti e quotidiani i dialoghi, laconiche le battute. Ovvero: come fare un film che va dritto all’essenza emotiva e morale del cinema con una totale economia di mezzi espressivi, che corrisponde armonicamente all’assunto etico cui la narrazione conduce. “Film bressoniano”, si sarebbe tentati di definirlo, se non esistesse una definizione “naturale”, più vicina alle radici dell’autore Clint Eastwood e delle storie (della Storia) che ci sta raccontando da anni: “film fordiano”, con tutta la purezza stilistica e mitica di John Ford, con tutti i suoi dubbi e, contemporaneamente, con tutta la sua fede ostinata nell’etica di fondo dell’individualismo americano. Un uomo solo può interrompere il circolo vizioso della violenza e dell’ingiustizia. Un uomo che, magari senza crederci, ha fatto pace con le leggi che regolano la sua convivenza civile (lo Stato, la Chiesa) e che ha deciso di usarle. Un uomo senza pistola. Un uomo senza peccato.
Pensiamo a The Man Who Shot Liberty Valance (L’uomo che uccise Liberty Valance, 1962): è indispensabile che l’uomo che non sa sparare, l’uomo di legge, si assuma il peccato che non ha commesso (l’uccisione del bandito), per diventare un eroe popolare, l’unico eroe innocente capace di metter fine alla legge violenta del West. In Gran Torino, con un movimento solo all’apparenza contrario, è il vecchio reduce della Corea, quello che sembra pronto a tener fuori gli intrusi dal suo prato a fucilate, che va disarmato a farsi uccidere dai giovani teppisti perché i testimoni riescano a incastrarli e s’interrompa così la spirale del sangue. La morale è la stessa: solo la legge può salvarci dal caos. Anche Walt Kowalski, come Ransom Stoddard in The Man Who Shot Liberty Valance, è “innocente”: nel prefinale è andato finalmente a confessare i suoi peccati, un bacio rubato durante una festa a un’amica della moglie, un trucchetto con le tasse, non essere mai stato vicino ai suoi figli. L’altro peccato,“autorizzato”, l’uccisione di un giovane nemico in Corea, se l’è portato dentro come un incubo nero per tutta la vita, esattamente come accade a un altro vecchio eroe stanco del cinema americano contemporaneo, Alvin Straight in The Straight Story (Una storia vera, 1999) di David Lynch, anche lui, come Walt, come Ransom, profondamente morale, anche lui ossessionato dai ricordi di guerra e dal rimpianto per una famiglia disarmonica, anche lui alla ricerca di pace tra una fauna di misteriosi estranei. Corrono anni luce tra Walt Kowalski e Harry Callahan, ma Gran Torino è lo sbocco armonioso di tutto il cinema di Clint Eastwood, probabilmente l’ultimo autore classico vivente, certamente uno dei maggiori registi contemporanei. Sono quasi vent’anni che mira sempre più in alto, eticamente e cinematograficamente, che constata i peccati orribili della società americana, che “si purifica”. Non fosse il capolavoro che è, Gran Torino servirebbe comunque a sgombrare il campo dagli equivoci che ancora circolano sulla personalità artistica di Eastwood.